22 DICEMBRE 2002
Giornata di zazen
al Dojo Zen Sanrin di Fossano
diretta dal Maestro Roland Yuno
Rech
San kon zazen setzu
Domenica
22 dicembre 2002, kusen
delle 8:15
Durante zazen non
lasciatevi distrarre dai pensieri. Proprio ora le campane suonano. In un tempio
la campana che suona è il richiamo alla concentrazione qui e ora. Il suono
della campana vuol dire "non perdete l'istante presente".
Durante zazen non perdere l'istante presente
significa non continuare ad intrattenere lo spirito ordinario, seguire i propri
pensieri, ruminarli.
Per questo il metodo migliore è ritornare
costantemente alla concentrazione sulla postura, in particolare sui punti
chiave, sui punti importanti di questa postura,
soprattutto sulla verticalità della schiena. Per mantenere questa verticalità
occorre che la base di zazen sia ben stabile. La base
è il bacino inclinato in avanti come se volessimo che l'ano non toccasse lo zafu. Prendiamo fortemente appoggio con le ginocchia
sul suolo, distendiamo il ventre, lasciamo che il peso del corpo prema sullo zafu e, a partire dalla
vita, estendiamo la colonna vertebrale, rilasciando tutte le tensioni della
schiena, estendiamo la nuca e allentiamo le tensioni delle spalle. Il mento è
rientrato e spingiamo il cielo con la sommità del capo. Le orecchie sono sulla
verticale delle spalle, evitate che la testa cada in avanti, il naso è sulla
verticale dell'ombelico. Non lasciate che il corpo si inclini
indietro, né avanti. Il viso e le mascelle sono rilassati, la lingua è posta
contro il palato. Se avete la tendenza a pensare troppo, potete concentrarvi
sulla punta della vostra lingua, è un buon metodo per calmare il dialogo
interiore, smettere di farsi dei discorsi. Ci si
concentra poi sulla posizione delle mani, la mano
sinistra nella mano destra, i pollici orizzontali, il taglio delle mani in
contatto con il basso ventre.
Una volta che avete preso la postura, che il
vostro corpo ha trovato il tono giusto, né troppo teso né troppo rilassato,
potete allora cominciare a concentrarvi sulla respirazione. Concentrarsi
significa ritornare al centro dell'esperienza presente: concentrarsi sull'inspirazione quando inspiriamo, essere totalmente uno con
l'ispirazione ed essere totalmente uno con l'espirazione quando espiriamo.
Essere "uno con" vuol dire che non
misuriamo la respirazione, non riflettiamo a proposito della respirazione; non
è il caso di dire a noi stessi: "ora la mia respirazione è lunga,
oppure è corta, è breve". La respirazione è quella che è, noi siamo
completamente "uno", unità con la respirazione, fino al punto
in cui c'è solo più un corpo e uno spirito che respira, senza pensarci, senza
dualità, senza separazioni, senza ego.
Lo sforzo, la concentrazione cosciente ci porta
fino al punto in cui la postura di zazen diventa
sufficientemente forte, finché sia solo zazen che continua zazen, senza più
bisogno di fare alcuno sforzo cosciente, fino al punto in cui possiamo
dimenticare noi stessi, abbandonare noi stessi a zazen.
Questo zazen diventa allora la pratica del risveglio,
della liberazione, la sua attualizzazione qui e ora,
non un esercizio in vista di un risveglio futuro, ma la pratica nella quale,
qui e ora, l'ego è abbandonato. Diventa la nostra autentica
natura, realizzata, inconsciamente e naturalmente, senza pensarci.
Nel corso di questa giornata di zazen vorrei tradurvi e commentarvi il San kon zazen setzu
del Maestro Keizan. Si tratta di un breve testo sui
tre tipi di praticanti di zazen: vi è colui che pratica lo zazen più
elevato, colui che pratica lo zazen meno elevato e colui
che pratica lo zazen ordinario.
La persona che pratica lo zazen
più elevato, dice Keizan, non si interessa
assolutamente a problemi quali "come i Buddha appaiono nel mondo",
non considera mai verità che non siano trasmissibili neanche dal Buddha e dai
Patriarchi; in altre parole non perde il suo tempo in domande inutili, non si
perde nella metafisica. Non crea nemmeno dottrine sul fatto che ogni cosa sia
l'espressione del sé; anche se questa è la realtà, non c'è bisogno di creare
dottrine a questo proposito, poiché è al di là del
risveglio e dell'illusione; e la maggior parte del tempo le dottrine cercano di
definire cos'è il risveglio, in opposizione alle illusioni.
La maggior parte delle persone credono che pratichiamo zazen per
sbarazzarci delle nostre illusioni e ottenere il risveglio. Finché si pratica zazen con questa idea, lo zazen è come una lotta: "devo dimenticare le
illusioni, devo raggiungere il satori...",
lo spirito è sempre separato, mai in pace.
Nella pratica più elevata di zazen, questo genere di attaccamento
è abbandonato. Anche se le illusioni sorgono, non ci si dice nemmeno "sono
illusioni", non ci si attacca a nulla, si lascia passare tutto senza
ristagnare su alcunché.
Queste persone, aggiunge Keizan,
non considerano mai nulla dal punto di vista dualistico, nulla li rende
schiavi, anche se le differenze appaiono. Ad esempio, talvolta durante zazen siamo addormentati, altre volte lo spirito è in sanran. Il modo ordinario di praticare zazen consiste nel cercare di calmare sanran
o di risvegliarci da kontin, concentrandoci ad
esempio sull'espirazione quando lo spirito è agitato, o al contrario
sull'inspirazione quando tendiamo ad addormentarci.
Talvolta anche questi metodi non servono a nulla, allora la cosa migliore è
attraversare tutti gli stati senza attaccarci ad essi
e senza rifiutarli, sviluppando uno spirito sufficientemente vasto per
inglobare sia sanran che kontin
in zazen.
Keizan termina dicendo a proposito di colui che pratica lo zazen più
elevato: "Si accontenta di mangiare quando ha fame e di dormire quando
è stanco". Evidentemente se diciamo questo a dei principianti o a
qualcuno che non pratica zazen, può apparire come uno
spirito ordinario, facile... Per chi è impegnato nella
pratica della Via, poter ritornare a questa semplicità autentica è abbandonare
la presa a proposito delle idee che ci si fa a proposito dello zen, ritrovando
un modo di essere autenticamente semplice, senza attaccamenti né a sé né alla
Via.
Quando la Via è abbandonata, la Via può realizzarsi
intimamente.
Domenica
22 dicembre 2002, kusen
delle 11:00
La persona che pratica zazen ad un livello meno elevato, secondo il Maestro Keizan, è qualcuno che abbandona ogni cosa e recide ogni
legame.
Il primo, colui che
pratica lo zazen più elevato, corrisponde al tipo che
i monaci dello zen cinese amavano molto, perché assomigliava un po' alla
mentalità taoista: è quello chiamato "l'uomo
senza affari", quello che ad esempio evoca il Maestro Yoka all'inizio dello Shodoka,
"quest'uomo del satori che ha cessato di
studiare e rimane inattivo, che non cerca né di recidere le illusioni né di
ottenere il satori".
Colui che pratica lo zazen ad
un livello meno elevato è colui che è sempre cosciente degli attaccamenti e
cerca di reciderli, questo significa che non ne ha percepito profondamente la
vacuità, e tanto meno la vacuità del proprio ego. Pensa allora che ci siano
costantemente delle cose da recidere, delle cose da
abbandonare. In effetti per la maggior parte delle
persone è proprio la realtà. Per la maggior parte del tempo siamo condizionati
dal nostro karma, dalla nostra ignoranza, dalla
nostra avidità, e certo bisogna stare attenti e non voler assomigliare troppo
presto all'uomo del satori, che non fa più
nulla, altrimenti si rischia di seguire compiacentemente il proprio karma, le
nostre illusioni, prendendo noi stessi per l'uomo del satori.
Questo secondo tipo di praticante di zazen, poiché ad ogni istante della giornata non è mai
ozioso, ogni momento della sua vita, ogni
respirazione, è una meditazione sull'unità.
Generalmente è quello che si insegna
nelle sesshin, cioè che le ventiquattro ore
sono in unità con zazen, ogni momento è un momento
per praticare la concentrazione, l'osservazione di sé, dimenticare noi stessi,
armonizzarci con gli altri, fare di ogni pratica, ad esempio del samu, non solo zazen,
delle cerimonie, dei pasti, del fatto di camminare e anche di riposarci, una
forma della pratica di zazen, la continuazione di zazen, l'attualizzazione della
verità del genjo koan
in ogni azione.
Ma Keizan aggiunge,
come alternativa a questo, "può anche
concentrarsi su di un koan", gli occhi fissi
su di un punto, per esempio la punta del naso. Vediamo che Keizan
mostra una pratica che non appartiene al nostro punto di vista, al punto di vista del Maestro Dogen,
non è una pratica ortodossa. E' quanto spiegavo ieri sera ai responsabili, il
fatto che nello Zen Soto ci sono molti miscugli,
comprese pratiche Rinzai come i koan,
ed è in particolare con il Maestro Keizan che queste
pratiche sono state reintrodotte nello Zen Soto, per
permettere anche il suo ampliamento.
Il Maestro Deshimaru,
i suoi discepoli, i godo che gli sono succeduti
restano fedeli allo Zen di Dogen per quello che
riguarda la pratica di zazen: non c'è bisogno di
concentrarsi su di un koan, ma concentrarsi
sulla postura, sulla respirazione, osservare il proprio spirito è il nostro koan.
Là Keizan aggiunge:
"Le considerazioni a proposito della vita e della morte, di camminare o
di restare in piedi, non trattengono la sua attenzione". Nonostante il
problema della vita e della morte sia la domanda più grave e
spesso proprio a causa di ciò entriamo nella Via, quando pratichiamo non
ci preoccupiamo della vita e della morte, ci concentriamo semplicemente sulla
vita di ogni istante. Dunque, quando viviamo, viviamo,
quando dobbiamo morire, moriamo. E' molto semplice. Possiamo così vivere
pienamente ogni istante senza rimpianti, non è il caso di passare la propria
vita a prepararsi a morire, in ogni caso la vita non conosce la morte, perché
siamo vivi e non possiamo avere altro che il punto di vista di un essere
vivente. Allora è meglio approfondire ciò che è vivere, e vivere pienamente la
nostra esistenza, attualizzando una vita senza separazioni tra sé e gli altri
realizzando così uno stato nel quale non siamo
attaccati a noi stessi. Il problema della vita e della morte non si pone più,
perché quando siamo nati non c'è un ego che nasce, di conseguenza al momento
della morte non muore alcun ego: si realizza così la non nascita e dunque la
non morte. Anche se spiego questo utilizzando delle parole, rimane al di là di ogni considerazione, è la questione
dell'esperienza della vita di ogni istante.
Keizan aggiunge: "Lo spirito che discrimina
non può mai percepire la più alta verità né comprendere lo spirito del Buddha
e, poiché non c'è dualismo nel suo spirito, è risvegliato".
Egli è colui che
pratica lo zazen ad un livello meno elevato, e
tuttavia è completamente risvegliato. Infine nella sua pratica, di totale
concentrazione su ogni istante, ogni forma di dualismo
è superata.
Keizan aggiunge: "Dal
passato più lontano fino ad oggi, la saggezza brilla costantemente chiara,
luminosamente: tutto l'universo nelle dieci direzioni è penetrato
improvvisamente dalla sua illuminazione e tutti i fenomeni non sono separati
dal suo corpo".
Questo significa che quando pratichiamo profondamente zazen,
pratichiamo lo zazen che è
lui stesso istantaneamente risveglio, qui e ora: questo zazen
include tutti gli esseri senza separazioni. Tutti i fenomeni nel nostro corpo
non sono separati e lo zazen che pratichiamo qui e
ora non è separato da nulla. E per questo i meriti di questo zazen possono riversarsi naturalmente su tutti gli esseri e
non sono limitati a colui che pratica.
Domenica
22 dicembre 2002, kusen
delle 14:00
Quando zazen è incominciato
non è più permesso entrare o uscire dal dojo. Bisogna
mettere un cartello all'entrata.
La persona che pratica lo zazen
ordinario, il terzo tipo di cui parla Keizan, è
quella che considera tutte le cose da tutte le angolazioni,
prima di liberare se stesso del buono e cattivo karma. Oggi ci sono
sicuramente molte persone che praticano così... - tossite discretamente...
mettete la manica del kimono davanti alla bocca... fate il minor rumore
possibile...-, sono persone simili a quelle che descriveva
il Buddha quando diceva che ci sono tanti tipi di cavalli, quello che parte non
appena vede l'ombra della frusta, quello che aspetta che la frusta gli tocchi
la pelle prima di iniziare a correre, e poi ce n'è un altro che aspetta che la frusta
penetri nella sua carne e vada sino all'osso. E' un po' il caso di questo terzo
tipo di praticante di zazen, che dubita molto e
quindi deve esaminare le cose sotto tutti gli aspetti
prima di decidersi a liberarsi del karma buono e cattivo, a liberarsi da
ciò che incatena, e ciò che ci incatena sono le nostre intenzioni, il nostro
spirito di attaccamento. Per molte persone, il senso della vita è
esclusivamente ottenere ciò che si desidera ed evitare ciò che non si ama. Se
funzioniamo in questo modo non potremo mai liberarci
del nostro karma, la nostra vita è solo karma, cioè azioni che
producono dei risultati che condizionano il seguito, dunque è la vita
condizionata. Tutto l'insegnamento della Via del Buddha mira
a liberarci da questa vita condizionata: prima comprendiamo questo, meglio è;
non è il caso di aspettare di trovarsi in una situazione molto dolorosa per
farlo, ad esempio sul punto di morire; non facciamo come quei pesci che
trovandosi in una pozzanghera d'acqua quando il mare si ritira, tardano a
saltare rapidamente nel vasto oceano e si trovano sulla sabbia, in secca.
Ci sono molte metafore per indicare questa condizione dello spirito, che è la
cosa più importante. Realizzare lo spirito del risveglio, rapidamente, senza
sciupare questa occasione unica di avere ottenuto una
vita umana che sola permette di liberarsi.
Il Maestro Keizan
aggiunge: "Poiché lo spirito esprime naturalmente la vera natura di
tutti i Buddha, e poiché i piedi dell'uomo, i piedi
dell'essere umano, stanno dove rimane il Buddha, allora tutte le vie negative
sono evitate". Questo significa che, anche se facciamo parte di questa
terza categoria, che esita, che dubita, che aspetta a lungo prima di entrare
nella Via, in ogni caso il nostro spirito esprime la natura del Buddha, la
nostra realtà è esattamente la realtà del Buddha. Così
ognuno può risvegliarsi e anche i cattivi cavalli finiscono per correre...
In seguito Keizan descrive lo zazen di
questo terzo tipo di persone, lo zazen ordinario,
dicendo: "Le mani sono nella posizione della meditazione, hokkaijoin, le mani non tengono nessuna scrittura,
nessun sutra; la bocca resta chiusa, come se ci fosse
un sigillo sulle labbra, nessuna parola, nessuna dottrina è pronunciata; gli
occhi non sono né aperti né chiusi e nulla è mai considerato dal punto di vista
della dualità, della differenziazione, non si ascolta la via del bene o del
male; il naso non si attacca né al buono né cattivo odore e il corpo infine non
riposa su nulla, perché l'illusione prende fine. Allora, poiché non vi è alcuna
illusione a disturbare lo spirito, non vi è ne piacere né pena, così
come per un Buddha di legno, la materia e la forma diventano uno con la verità.
Anche se i pensieri del mondo appaiono, non disturbano, perché lo spirito è
diventato come uno specchio chiaro nel quale non si muove nessuna
ombra. Ciò significa che anche la persona che pratica questo zazen ordinario, con questo
spirito di dubbio ed esitazione, realizza infine il risveglio, perché zazen è più forte di tutto". Le descrizioni fatte da Keizan di zazen, mostrano che
anche se ognuno è pieno di dubbi e illusioni, lo zazen
che noi pratichiamo è al di là, e quando ci si mette a seguire questo zazen, questo zazen diventa più
forte dei nostri dubbi, del nostro karma e ci trascina al di là dei nostri limiti personali.
Keizan aggiunge: "In zazen
tutti i precetti appaiono eternamente, che siano i cinque o gli otto precetti,
i grandi precetti del Bodhisattva,
i precetti dei monaci, le tremila maniere, le ottantamila credenze, il più alto
Dharma, la più alta legge del Buddha e dei
Patriarchi, tutto ciò appare da zazen. E' per questo
che tra tutte le pratiche nessuna può essere comparata
a zazen", che è realmente la sorgente di
tutte le pratiche, che può essere seguita da ogni sorta di praticante, dal più
dotato, il più intuitivo, sino al più recalcitrante. In definitiva zazen ha il potere di salvare tutti, perché in fondo ognuno
è già Buddha; semplicemente questo "in fondo" è più
o meno difficile da raggiungere, e zazen ha il
potere di farcelo contattare, ritrovare.
Domenica
22 dicembre 2002, mondo delle
15:30
- La mia domanda riguarda gli incarichi, le
responsabilità nel dojo, in
relazione alla frequenza. Il dojo di Fossano è
frequentato occasionalmente da molte persone, ma sono pochi coloro che vengono
con regolarità, e di questi la maggior parte viene solo una volta alla settimana. Così quando intervengono problemi di
carattere personale, di famiglia o di lavoro, di salute, diminuiscono ancora di
più le occasioni di frequentare il dojo. Allora
diventa veramente difficile distribuire gli incarichi, le responsabilità.
Abbiamo preparato una lista degli incarichi, ma le persone designate si
riducono ad essere presenti solo allo zazen in cui hanno una responsabilità, per poi sparire per
qualche settimana. Non mi sembra che questo sia lo spirito giusto. Qual è
allora secondo te lo spirito giusto per praticare e per far praticare
le responsabilità?
- Credo che prima di pensare alle
responsabilità, bisogna pensare a quale debba essere
lo spirito giusto semplicemente per praticare; le responsabilità vengono dopo.
Per la pratica stessa è importante considerare che bisogna praticare con molta
regolarità. E' altrettanto importante che avere una buona postura e imparare a
respirare bene. E' normale che le persone abbiano delle difficoltà a causa
della famiglia o della professione, ma è importante darsi l'obiettivo di una
pratica regolare, altrimenti zazen diventa un hobby, una attività tra le altre: un giorno si fa una cosa, un
giorno un'altra, un giorno zazen, quando si può...
Meglio praticare ogni tanto che non praticare mai, non bisogna scoraggiare le
persone che fanno così, ma credo che sia importante, urgente comprendere il
senso di gyoji, cioè della pratica regolare
che si ripete costantemente, "come il sole che sorge tutte le mattine"
diceva Dogen. Anche noi ci
alziamo tutte le mattine, ogni giorno mangiamo: zazen
dovrebbe far parte di queste cose della vita, quasi come il fatto che noi
respiriamo. Se capiamo sino a che punto la pratica di zazen
è vitale, che non è qualcosa che facciamo tra le altre, ma che dovrebbe venire
prima di ogni altra, anche se ad esempio dobbiamo
ridurre un po' il nostro sonno, se capiamo veramente il senso della pratica,
dobbiamo dirci: "anche se sono un po' stanco per il fatto di essermi
alzato prima per andare al dojo, ho avuto la fortuna
inaudita e straordinaria di avere incontrato la Via del Buddha: perché sciupare
questa fortuna e come fare perché questa prenda tutta la sua importanza nella
vita? " Solo se la Via assume più importanza di tutto il resto, solo a
quel punto la Via può autenticamente risvegliarci e liberarci. Se diventa una attività tra le altre, aumenta solo il nostro stress, un
carico supplementare tra il lavoro, la famiglia, ecc., in più si aggiunge zazen, che diventa pesante, che disturba. Se lo sentiamo così diventa difficile, ma se sentiamo che zazen è più importante di tutto il resto, è la fonte,
allora in quel caso troviamo facilmente e naturalmente lo spazio, anche se
questo vuol dire riorganizzare un po' la nostra vita, smettere di funzionare
con le proprie abitudini consolidate, ma rimetterle in discussione per dare una
vera priorità alla cosa che è più importante, alla ricerca spirituale, che è
una cosa fondamentale per l'essere umano. O consideriamo zazen
come un hobby, una occupazione come andare a pesca o a
caccia o altro, ma non è questo evidentemente. Quindi
è questo che prima di tutto bisogna realizzare, e il ruolo dell'educatore è
quello di far comprendere ciò attraverso lo spirito che regna nel dojo: solo così le persone saranno felici perché zazen in questo modo alleggerisce la loro vita,
alleggerisce il karma, cambiando l'ordine delle priorità nella vita. Con questo
non voglio dire di abbandonare la famiglia, il lavoro, per zazen,
ma di trovare il modo per dare più importanza a zazen,
e a quel punto zazen vi aiuterà realmente, perché
invece di diventare un'attività supplementare, renderà la vostra esistenza più
fluida, perché sarà cambiato il modo di interpretare
il ruolo familiare e professionale. Zazen
alleggerisce la vita: bisogna avere fiducia in questo e farne l'esperienza.
Questo è veramente la base e se non la si comprende
sarà difficile capire il resto. Per quanto riguarda gli incarichi, le
responsabilità, in italiano la parola "incarichi" dà l'idea di
qualche cosa di pesante che bisogna portare sulle spalle, in francese la parola
"responsabilità" è più adatta...
- In italiano "incarico" si
riferisce ad un compito più temporaneo, mentre la "responsabilità" è
qualche cosa che ha una durata più indeterminata...
- In ogni caso in francese utilizziamo
la parola "responsabilità"... dà meno l'idea di un carico...
qualcosa di pesante... Meglio utilizzare la parola "responsabilità".
E' il modo in cui noi rispondiamo al richiamo della Via. Allora la nostra
risposta è "come possiamo utilizzare l'energia di cui disponiamo, le
nostre capacità, per aiutare gli altri a praticare la Via? ". E'
questo il problema. Dunque avere delle responsabilità nel dojo,
non è avere un incarico che può diventare pesante, ma il modo migliore di
esprimere la nostra comprensione del risveglio, di essere
bodhisattva, tutto è l'occasione per praticare il
dono, il fuse, la pratica principale di un bodhisattva
che utilizza le sue energie per aiutare gli altri, sia a partire dalle piccole
cose come cambiare i fiori sull'altare o dirigere lo zazen.
Bisognerebbe considerare tutto come un servizio, allo stesso livello di un samu, piuttosto che come ricompensa legata ad una
pratica più o meno intensa, o perché si è ricevuta
l'ordinazione... allora ci si considera come qualcuno passato di grado, che
deve avere una responsabilità per diritto. Ci sono persone che rivendicano una
responsabilità in relazione al fatto di essere bodhisattva o monaci: vogliono dirigere lo zazen, lo reclamano come un diritto, ma è il loro ego, non
lo fanno con lo spirito del dono. Anche questo caso è
difficile per il responsabile del dojo, a chi dare
una responsabilità... Se si tratta solo di far crescere l'ego delle persone,
non vale la pena, aumentare gli attaccamenti, l'immagine di sé e della propria
importanza: allora diventa l'illusione completa delle responsabilità. Bisogna
che le persone comprendano che, se ci vengono affidate
delle responsabilità, devono essere assunte come un samu
e, se non ci viene chiesto nulla, non bisogna offendersi, non c'è nulla di
grave. Il solo fatto di esserci con la propria energia è importante: è come un
ceppo nel fuoco che crea l'energia della pratica. Ma se vi chiedono di aiutare non è positivo rifiutare, anche se non bisogna sentirsi
obbligati ad accettare - ma a quel punto bisogna spiegare le cause del rifiuto
-.
Per far sì che si possano esercitare le proprie
responsabilità è fondamentale avere una pratica
regolare - è questo l'inizio della tua domanda -, perché è a partire dalla
propria pratica che possiamo aiutare, mentre l'opposto sarebbe venire solo
quando si ha una responsabilità, come se si difendesse una posizione che si
rischierebbe di perdere, o obbligati dal senso di responsabilità, controvoglia,
non con bodhaishin. E' solo lo spirito del
risveglio che deve spingerci, e questo spirito è sviluppato dalla pratica
stessa. Certo, anche dalla riflessione, ma è soprattutto la pratica che stimola
lo spirito del risveglio. Prima deve esserci la pratica, poi le responsabilità,
interpretate come un servizio.
Ieri avevo affrontato questa domanda spiegando
come faceva il Maestro Deshimaru: ad esempio, per
essere incaricati a dare il kyosaku nel dojo bisognava andare allo zazen
almeno quattro volte alla settimana; tenendo conto che
c'erano quattro zazen al giorno per ogni giorno della
settimana, c'era la possibilità di scegliere... In ogni caso controllava la
lista delle presenze e, se non si rispettava la frequenza, si era considerati
non adatti, ma non era una punizione. Il Maestro Deshimaru
rispettava tutti, anche se si andava solo una volta all'anno
diceva va bene, ma per avere una responsabilità bisognava essere ancorati alla
pratica e non andare solo per rispettare l'impegno. All'epoca del Maestro Deshimaru essere presenti anche gli altri giorni, fare zazen normalmente con gli altri, faccia al muro, non era
difficile, non c'era il problema della carenza di
persone in quanto molti volevano praticare ed era molto facile seguire questa
regola, esisteva quasi la competizione, l'emulazione, allora era facile
scegliere; ma non è il caso di tutti i dojo,
sfortunatamente...
Allora se praticate queste regole, nessuno avrà
più una responsabilità, e nessun dojo potrebbe più funzionare... In questo caso bisogna
ammorbidire un po' le regole, mantenerne sempre presente lo spirito. Ho parlato
di questo proprio per lo spirito, affinché le persone capiscano le cose in
questo modo, e possa stimolare la pratica in loro. In
ogni caso c'è una cosa da evitare assolutamente, le persone che vengono solo il
giorno in cui hanno una responsabilità dovrebbero
essere rimosse dal loro incarico, perché vanno contro lo spirito dello Zen del
Maestro Deshimaru. Occorre essere comprensivi, ma chi
ricopre una responsabilità, oltre al giorno prefissato
dovrebbe venire al dojo almeno un'altra volta, e
avere sempre presente lo spirito, ricordarlo, sperando che il dojo possa progredire potendo allora essere anche più
esigenti, mentre ora ci si accontenta di assicurare almeno il minimo. Ma tuttavia non bisogna dimenticare lo spirito di queste
regole altrimenti il dojo si indebolisce e non può
svilupparsi. Così se ci sono solo due o tre persone che hanno lo spirito
giusto, saranno loro ad avere le responsabilità e gli altri dovranno aspettare;
non bisogna dare le responsabilità solo per fare un piacere a qualcuno - questo
indebolisce la pratica -, ma offrire l'occasione alla gente di fare un fuse a partire dalla loro pratica e far capire
questo spirito. Se non si comprende questo spirito, è
meglio a volte semplificare: non si fa la cerimonia, si termina con un colpo di
campana e via, finito. Oppure chi dirige può fare lui stesso quasi tutto;
richiede una certa abilità: con la mano destra si fa il mokugyo,
con la sinistra la campana, e i sanpai
si fanno con la clochette... un pai, un colpo di clochette,
e così via. Un amico giapponese che ora è un maestro,
nel suo tempio alla cerimonia del mattino faceva praticamente tutto da solo...
come un uomo orchestra... senza problemi; allora, è possibile anche fare così,
una persona sola può fare molte cose nella cerimonia; se non ci sono altre
persone che possono avere una responsabilità, è meglio fare così, in modo da
arrestare l'atteggiamento di queste persone che vengono solo il giorno in cui
hanno una responsabilità.
* * * * * * * * * *
- In questi ultimi tempi, nel mio lavoro e in
altre attività collaterali, mi capita frequentemente, sempre più spesso, di
trovarmi in situazioni conflittuali. Non conflitti personali, ma piuttosto conflitti di tipo sindacale e sociale. Quando
mi trovo in queste situazioni, penso spesso a quello che sento dire, per
esempio, durante la pratica in merito al bisogno che sento in me di
armonizzarmi. Ma in queste situazioni ci sono sempre
delle controparti, che sono persone fisiche, qualche volta quindi armonizzarmi
diventa difficile...
- Bisogna capire cosa significa
"armonizzarsi": è una parola che può ingannare. Per esempio, si dice
"armonizzarsi con gli altri"... Se incontri
un gangster, per armonizzarti diventi anche tu un gangster? "Armonizzarsi"
forse non è la parola più adatta: è "comprendere" l'altro, cercare di
capire il suo spirito; non "seguirlo"! Significa cercare di capire lo
spirito dell'altro, mettersi nella sua posizione con compassione e simpatia,
capire le sue illusioni senza però seguirle. E' diverso, altrimenti diventa
impossibile aiutare.
Bisogna evitare di condannare perché, se si condanna, se si respinge, si perde il contatto con l'altro;
il compito del bodhisattva è capire la radice
delle illusioni con uno spirito di compassione e benevolenza, aiutando le
persone a modificare il proprio spirito.
Quando intervengono dei conflitti, è importante cercare di essere mediatori: è assai raro che
ci sia una parte che abbia il cento per cento di ragione... Certo, ci può
essere qualcuno che abbia più ragione di un altro, ma sicuramente ci sono
illusioni da ambo le parti e il ruolo del bodhisattva
è cercare di risolvere i conflitti, non schierandosi con uno o con l'altro, ma
facendo capire alle controparti qual è il punto in comune che può permettere di
superare le opposizioni. Questo è il ruolo del mediatore. Il
mediatore esiste come ruolo nella società civile; ritengo sia un ruolo molto
importante per un bodhisattva; e non credo
debba armonizzarsi con uno o con l'altro, ma capire sufficientemente le
situazioni per permettere un superamento dei conflitti, aiutando gli altri a
cambiare il proprio punto di vista, per entrare in simpatia con l'altro, capire
la radice dello spirito dell'altro, capire quali sono le cause, ad esempio,
della sua rabbia. Per fare questo bisogna dimenticare se stessi per capire chi è l'altro, ma questo non significa
seguirlo. Il rischio naturalmente è che se noi cerchiamo di
comprendere l'altro diventando completamente l'altro, finiamo per condividerne
completamente anche le illusioni: se l'altro è un ladro, non bisogna
condividere lo spirito del ladro: se diventi completamente lui, allora diventi
un ladro anche tu.
E' importante avere questa capacità di
diventare l'altro per capire il suo spirito e aiutarlo a cambiare, ma poi
bisogna fare attenzione. E' come voler salvare
qualcuno che annega: non dobbiamo annegare anche noi,
andare a fondo con lui sarebbe completamente assurdo. Bisogna però anche avere
la capacità di capire che c'è qualcuno che sta annegando e che ha bisogno di aiuto, altrimenti se vedo qualcuno in mare che gesticola
e penso che mi stia salutando gli faccio ciao e lui annega... Quindi se capisco
che c'è qualcuno in difficoltà posso valutare le mie capacità di intervenire e
andare in aiuto.
* * * * * * * * * *
- Di fronte a una
scelta, se non dobbiamo discriminare, come dobbiamo comportarci?
- Quando dobbiamo
scegliere, dobbiamo fare delle discriminazioni, ma discriminare nel modo
giusto.
Durante zazen non
bisogna fare discriminazioni perché non ci sono scelte da fare, non c'è azione,
non facciamo nulla. Allora possiamo imparare il
distacco, a realizzare uno spirito vasto che non sceglie, ma nella vita
quotidiana non possiamo essere sempre in questa situazione, bisogna scegliere,
andare a destra o a sinistra, fare una cosa o non farla,
allora a quel punto bisogna scegliere e allora decidere.
Nel momento di scegliere bisogna discriminare a partire da uno spirito vasto, a partire da uno spirito
illimitato, non uno spirito egoista che vede solo il proprio interesse, bisogna
discriminare a partire da un punto di vista più vasto. L'ideale sarebbe
discriminare a partire dal punto di vista del Buddha,
cioè decidere chiedendosi qual è l'atteggiamento che può essere di beneficio
per l'altro; la visione ordinaria sarebbe di scegliere ciò che mi conviene
maggiormente, che mi porta più vantaggi; è così che discrimina la gente
ordinaria (non sempre, ma molto spesso). Il modo di discriminare di un bodhisattva, di un praticante della Via, è avere la
preoccupazione dell'altro, inteso anche come gruppo, come società: nelle scelte
che si fanno bisogna tenere conto dell'interdipendenza. Ciò che faccio avrà un
effetto: questo dà il senso della responsabilità, perché ogni nostra scelta ha
un'influenza; se, ad esempio, al supermercato compri una cosa invece che
un'altra, questo produrrà degli effetti, acquistare un prodotto biologico
incoraggerà la produzione e non è la stessa cosa che acquistare la stessa merce
prodotta con una logica completamente chimica, ed è una discriminazione
non solo per il proprio benessere personale, ma una scelta che parte
dalla domanda "qual è la scelta migliore per essere d'aiuto e per il
bene anche degli altri? ".
E' in questo modo che bisogna discriminare, per
quanto possibile.
* * * * * * * * * *
- Mi rendo conto di avere pochi attaccamenti,
forse nessuno. Probabilmente perché mi fa schifo quasi tutto...
- Questo non è il vero
distacco... Essere disgustati da tutto non è il distacco. Si collega
piuttosto all'odio, al rifiuto. Il vero distacco è né amore né odio. Provare
del disgusto è provare odio, rifiuto: è la forma opposta dell'attaccamento.
Essere contro qualcosa o qualcuno è una forma di
attaccamento.
- Ma quando non c'è
nulla a cui attaccarsi?
- Dipende: può essere il caso di una forma di
depressione e in quel caso bisogna curarsi, perché è una malattia. L'assenza di
desideri non è necessariamente il distacco e la liberazione, può essere il
sintomo di una depressione, e non significa che siamo distaccati,
ma malati. Ma se tu non hai attaccamenti perché hai compreso che non vi
è nulla a cui attaccarsi, e quindi hai avuto un grande
satori, allora sei libero. Semplicemente
non creare illusioni a te stesso e cerca di capire realmente che cosa ti porta
ad un determinato sentimento: se è l'odio per determinate situazioni, se è una
depressione, oppure se è il risveglio...
- E' che se ho un desiderio, questo desiderio viene frustrato...
- Per esempio...
- Le cose che mi stanno più a cuore sono
irrealizzabili...
- Che cosa, ad esempio...
- Perché sono solo
utopie...
- Che cosa, ad
esempio...
- Che la verità sia
diffusa... anche la compassione...
- Vuol dire che tu sei
attaccato a valori molto ideali, la verità..., il bene..., e vedi che il mondo
non funziona su questi ideali, così sei scoraggiato. Ma
questo non è il distacco, è solo scoraggiamento, non è la stessa cosa.
L'attitudine del bodhisattva, di fronte alla
realtà del mondo, pieno d'illusione e sofferenza, non è di scoraggiarsi. Penso
che tu sia troppo attaccato ad un ideale e per questo non fai niente: se tu non
riesci a realizzare tutto il bene e tutta la verità, subito, allora ti scoraggi e pensi non valga la pena di continuare. Spesso le
persone troppo idealiste restano paralizzate.
Invece l'attitudine del Buddha, del bodhisattva, è realista: cosa è possibile fare, anche se è
una piccola cosa? Camminare io stesso sulla Via e aiutare gli
altri ad avanzare nella stessa direzione. L'ideale sarebbe che tutto il
mondo fosse salvato e la verità manifestata, questo è l'ideale più alto, ma non
lo si può realizzare in un sol colpo. Si può fare un
passo ogni giorno in questa direzione: è il modo migliore per non scoraggiarsi.
Vuol dire accettare che fra il tutto e il niente esiste sempre una via di
mezzo, qualche cosa che è possibile.
- Sento due sentimenti paralleli, io continuo
ad indicare la bellezza di un fiore e contemporaneamente la barca affonda...
- Che barca?
- L'esistenza...
- Quale esistenza?
- Mia e degli altri...
- Perché la barca
affonda?
- Perché non ci sono più
vibrazioni tra noi...
- Tra chi?
- Tra le persone...
- Questo non significa nulla... Temo che il tuo
spirito immagini cose che t'impediscono di vedere la realtà molto
più semplicemente.
* * * * * * * * * *
- Mi riferisco all'ultimo kusen
che hai fatto durante zazen.
Non so se ho capito bene: la pratica di zazen è la
cosa migliore, la Via migliore... Io non riesco a
pensare questo. Sono una praticante agli inizi, mi sembra una cosa molto buona,
ci credo e persevero, non posso però pensare che sia la migliore. Penso che ci
sia una verità e tante strade. Posso pensare che adesso, in questo momento,
chissà dove, un altro gruppo come il nostro non faccia zazen,
ma pratichi la Via...
- Sì, ma questa è la Via migliore per coloro che praticano. E' importante quando
pratichiamo, non dubitare della pratica, non pensare continuamente che ci sia
qualcos'altro di interessante che vorremmo sperimentare da qualche altra parte.
Questo è uno dei motivi che impedisce alla gente di
impegnarsi profondamente in una pratica, perché diventa come un supermercato
della spiritualità: possiamo andare in una libreria e trovare tutti gli
insegnamenti del mondo, di tutte le vie spirituali. A volte nella stessa strada
possiamo trovare diversi modi e possibilità di pratica: c'è solo l'imbarazzo
della scelta e questo può rendere difficile l'impegno
e, a volte, anche se c'è l'impegno, una parte della nostra mente ha paura di
perdere qualcosa, di rinunciare a qualcos'altro. Allora in questo caso è meglio dirsi "ciò che ho scelto è il meglio",
così non si pensa più ad altre cose. Questo non vuol dire ignorare che
esistono altre vie. Mi auguro che un cristiano ritenga la via del Cristo la
migliore e che possa concentrarvisi completamente, che ognuno abbia fiducia
nella via su cui è impegnato, nel rispetto delle altre, ma anche col
convincimento che la propria è la sola.
Questo mi evita, quando insorgono degli
ostacoli, di cercare altrove invece di approfondire, pur con i dubbi e le
difficoltà, attraverso i dubbi e le difficoltà, invece
di sfuggire e restare sempre sulla superficie delle cose.
Per questo i discepoli sono sempre stati
incoraggiati a considerare la Via nella quale sono impegnati
come la migliore: inutile cercare altrove, concentratevi su quella.
Naturalmente esistono altre vie e sono altrettanto rispettabili.
Domenica
22 dicembre 2002, kusen
delle 16:300
E' l'ultimo zazen
della giornata. Concentratevi bene, non perdete il
vostro tempo a ruminare i pensieri. Se avete male alle
gambe, alla schiena, concentratevi maggiormente sull'espirazione. Concentrarci
di più sull'espirazione ci permette di attraversare le difficoltà più
semplicemente senza essere disturbati da ciò che ci capita; questo ci aiuta a
radicarci nella pratica di zazen, ad andare al di là delle nostre preferenze e antipatie, dei nostri
attaccamenti, dei nostri rifiuti, dunque di diventare autenticamente liberi
anche nel mezzo delle condizioni della vita, che non sempre corrisponde a ciò
che desideriamo.
Se pratichiamo zazen in
questo modo, zazen ha il potere di liberarci
profondamente. Per questo lo zazen è ritenuto
possedere i più alti meriti, dagli effetti illimitati, impossibili da misurare.
A questo proposito il Maestro Keizan conclude il suo insegnamento sui tre tipi di praticanti
dicendo: "Anche se un solo merito è guadagnato facendo zazen, questo merito è più grande della costruzione di
centinaia i migliaia di templi".
E, come ci ha detto il Maestro Deshimaru nelle sue ultime parole, lasciando la Francia e la vita, anche Keizan
dice: "Continuate zazen eternamente, per
sempre. Senza fermarvi". Praticando così siamo liberati dalla vita e
dalla morte, cioè dall'attacca-mento alla vita e dal
timore della morte. Ma siamo anche liberati dalla credenza che vi sia qualcuno o qualche cosa che nasce e che muore. E' questa
liberazione che ci permette di fare, in questa vita nel samsara,
l'esperienza del nirvana e della grande pace. Keizan diceva: "Questo ci permette di liberarci
dalla nascita e dalla morte e di realizzare la nostra autentica natura di
Buddha". La natura di Buddha non è la natura
di qualcun altro: è la realtà della nostra esistenza non limitata
dall'illusione del nostro piccolo ego, la nostra esistenza in unità, in
relazione con tutti gli esseri.
Allora Keizan dice:
"E' del tutto perfetto e naturale, andare, venire, sedersi o
allungarsi, vedere, sentire, capire che tutto ciò non è altro che la
manifestazione naturale del nostro autentico sé". In altre parole non
si tratta di cessare ogni attività, di diventare qualcuno di speciale, imitare
qualcun altro, oppure un ideale, ma semplicemente di essere in contatto con la
realtà della nostra esistenza, comprendere questa realtà e armonizzarci con essa, manifestarla così in tutte le nostre azioni.
Keizan conclude: "Tra
il primo spirito e l'ultimo - in altre parole, tra lo spirito di colui che
pratica lo zazen più elevato e quello ordinario - non
vi sono differenze" ed è inutile discutere a proposito del sapere o
dell'ignoranza: semplicemente continuate zazen con
tutto il vostro essere, non dimenticatelo, non perdetelo.
Traduzione: Maresa Di Noto
Annotazione: Bruno Brugnoli
e Marco Viale
Raccolta
e trascrizione: Marco
Viale