24-26 MARZO 2006

 

Sesshin di Pégomas

diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

 

Shôbôgenzo Gyobutsu yuigi del Maestro Dôgen

 

 

 

Venerdì 24 marzo 2006, kusen delle 7:00

 

Sin dall’inizio di zazen occorre assumere una postura forte, energica, ponendo tutta la propria energia e la propria attenzione nella postura del corpo, in modo da non lasciare che il mentale vi trascini altrove, per essere sin dall’inizio in totale unità con zazen.

All’inizio di zazen si passano in rivista i punti importanti della postura, cercando di trovare la miglior postura possibile tenendo conto delle condizioni attuali del nostro corpo. In particolare deve essere corretta l’inclinazione del bacino in avanti, in modo che le reni non siano né troppo tese né troppo rilasciate. Ci si siede come se volessimo che l’ano non tocchi lo zafu, poi si inclina il bacino in avanti a partire dai due punti di contatto delle protuberanze ischiatiche sullo zafu. Si inspira profondamente due o tre volte in modo da rilassare il plesso solare, la zona del diaframma e il ventre. Se ne sentite il bisogno potete inspirare ed espirare a fondo con la bocca per rinnovare la vostra energia. In seguito ci si accontenta di inspirare ed espirare con calma attraverso il naso, percependo come si è seduti. Si estende dolcemente la colonna vertebrale a partire dalla vita rilassando le tensioni della schiena. Si spinge il cielo con la sommità del capo. Il mento è rientrato e le spalle rilassate. Le spalle devono essere come i rami di un abete, molto flessibili, in modo da lasciar cadere i mucchietti di neve che si sono accumulati. Allo stesso modo sulle nostre spalle si accumulano molte tensioni, causate da molte cose che crediamo di dover sopportare, portare nella nostra vita.

Spesso ci si rende conto che le spalle sono troppo tese ed occorre rilassarle per tornare a una condizione più normale. Durante zazen non si porta nulla, ci si lascia portare da zazen, ci si rimette a zazen. La postura è essa stessa Buddha, essa stessa risveglio. Il risveglio non dipende dalla nostra volontà, non si tratta di qualcosa da raggiungere, ma piuttosto di un’esperienza da lasciare arrivare. Per questo motivo occorre evitare di avere costantemente una concentrazione volontaristica. All’inizio di zazen, come ho detto, ci si concentra sui punti importanti, in particolare la posizione delle mani, mano sinistra nella mano destra, pollici orizzontali, taglio delle mani in contatto con il basso ventre. Ma, una volta che la postura è sufficientemente stabile ed equilibrata, non vi si pensa più coscientemente. Non si vuole più nulla, non si fa più nulla. E’ proprio come la posizione delle mani in zazen, che non fabbricano nulla, non afferrano nulla. Quando si offre tutta la propria energia alla postura, tutta la propria attenzione alla respirazione, essendo in unità con il corpo, con il soffio che entra ed esce, allora l’io cosciente che vuole, che non vuole, che sceglie senza sosta, che discrimina e che in realtà è solo un modo di funzionamento dello spirito, questo ego un po’ coagulato, questo tipo di funzionamento dello spirito dualista viene abbandonato ed appare un nuovo modo di funzionare che prima era ricoperto o soffocato dal mentale cosciente ordinario, incaricato di discriminare senza sosta. Ma in zazen non c’è bisogno di discriminare nulla, è possibile lasciare da parte il tipo di funzionamento ordinario delle spirito per far spazio a un’altra forma di coscienza che non separa, che non crea etichette, concetti a proposito di ciò che è vissuto, che accoglie semplicemente l’esperienza di ogni istante senza nominarla, senza attaccarsi ad essa, senza respingerla e soprattutto senza desiderare qualcosa d’altro. Molte persone che iniziano la pratica, che scambiano questo con una meditazione, immaginano che occorra un oggetto speciale per raggiungere una condizione particolare. Non fanno altro che inseguire la ronda del mentale nel mondo dei desideri. Queste persone si innervosiscono perché non vorrebbero pensare, ma i pensieri affluiscono dalla vita quotidiana mentre esse si aspetterebbero una grande illuminazione; così continuano ad essere separate dalla loro esperienza presente con uno spirito che giudica, che respinge, che cerca sempre altro, mentre la pratica di zazen consiste proprio nel ritornare alla realtà dell’esperienza presente così come è, al di là di ogni paragone, smettendo di cercare eternamente un altrove, qualcosa di diverso.

In altre parole questo significa ricongiungersi con la propria vita di ogni istante invece di separarsene a causa dei propri sogni illusori. E anche se questi sogni illusori si manifestano nell’istante di zazen, sono la realtà psichica che sperimentiamo ora. Si tratta allora di accoglierli senza attaccarci ad essi, senza respingerli, proprio come si accoglie la caduta dei fiori anche se li amiamo e siamo dispiaciuti nel vedere cadere i petali, così come accogliamo le erbacce che crescono anche se preferiremmo che non invadessero il giardino.

E anche questa emozione di rimpianto nel vedere appassire i fiori o l’emozione di collera nel vedere le erbacce crescere fa interamente parte di questa esperienza del qui ed ora che dobbiamo dunque accogliere, ma senza attaccarci, vedendo che è semplicemente quello che è. Quando una cosa è vista per quello che è, non c’è attaccamento né ossessione. Semplicemente lasciamo passare i diversi stati mentali e soprattutto ne vediamo intuitivamente e profondamente l’impermanenza, l’instabilità, realizzando che non possiamo trattenere nessuno stato, né possiamo attaccarci ad esso; invece di rimpiangere l’immobilità, la fissità, scegliamo la corrente, la trasformazione, l’impermanenza così come è, realizzando uno spirito che non dimora su nulla e che è, come ricorda il Sûtra del Diamante, il nostro autentico spirito, cioè lo spirito realmente in armonia con l’ordine cosmico, con il Dharma. Ed è con questo spirito che diventiamo intimi durante la sesshin. La parola sesshin significa proprio intimità con lo spirito autentico, nel dojo, durante zazen e che prosegue nella pratica di gyoji, una pratica costante che include le ventiquattro ore del giorno e della notte.

Non dormite. Se rimanete attenti a ciò che avviene ad ogni istante, se siete presenti all’esperienza dell’istante non vi addormenterete. Se ci si addormenta quando si è troppo stanchi e zazen ci annoia, allora significa che non si è veramente vigili.

 

 

Venerdì 24 marzo 2006, kusen delle 11:00

 

Quando ci impegniamo nella pratica dello Zen desideriamo seguire la Via del Buddha, la Via del risveglio che possiede la capacità di liberarci dalla sofferenza così come tutti gli esseri, permettendoci di vivere in armonia con tutto l’universo. Esiste dunque una stretta relazione tra il praticare con corpo e spirito in unità, non solo in zazen, ma anche durante samu, gyoji, le cerimonie. L’azione di seguire la Via è la realizzazione della condizione di buddha, la realizzazione del risveglio. A questo proposito il Maestro Dôgen diceva nello Shôbôgenzo Gyobutsu yuigi : “Anche con la capacità di Buddha, non è possibile stimare la piena misura, l’autentica dimensione della grande Via, perché anche la capacità di Buddha, il potere di Buddha non sono che una parte della totalità, del tutto, come lo sbocciare di un fiore non è che un avvenimento della primavera”. Questa è la conferma della dichiarazione di Shakyamuni con la quale affermava di aver ritrovato una via antica percorsa da tutti i buddha, volendo intendere con questo che la Via è molto antica a anteriore allo stesso Buddha, che in definitiva non ha fatto altro che seguire questa via che è al di là di lui, come di ognuno di noi. Quando seguiamo l’esempio del Buddha, il suo insegnamento, in realtà seguiamo la Via seguita dal Buddha stesso, che dunque è al di là di lui, di noi, la Via che si realizza qui ed ora, concretamente, nella pratica che è il risveglio e che ci armonizza con la Via. Occorre comprendere che la Via è sia il cammino che l’ordine cosmico, la realtà ultima dell’universo, come tao, come do. I due significati si riallacciano poiché il cammino è quello che ci conduce ad armonizzarci con il tao, con l’ordine cosmico, con il Dharma, con la realtà ultima dell’universo. In pratica, per ognuno di noi, esistono ogni sorta di vie e di cammini possibili, ossia modi di pensare, di agire, di vivere, che possono allontanarci dall’armonia con l’ordine cosmico e farci permanere nell’illusione.

Sono quelli che chiamiamo i sei cammini del samsâra, della trasmigrazione nel mondo di dolore e dei quattro cammini, le quattro vie del risveglio che iniziano al di là di questi sei cammini. Voi tutti conoscete questi sei cammini innanzi tutto perché ne avete già sentito parlare, ma soprattutto perché anche se si pensa di seguire la Via, in realtà si è spesso in uno di questi sei cammini di trasmigrazione, cioè il cammino dell’inferno, la via infernale, quella della sofferenza costante nella quale si è costantemente tormentati, in conflitto con se stessi, con gli altri, con la realtà, mai in pace. E’ il cammino all’interno del quale le persone finiscono spesso per essere disperate e vogliono suicidarsi, sentendosi in una via senza uscita nella quale la sofferenza è l’unica prospettiva. Questo è il peggiore dei cammini di trasmigrazione e nella mitologia buddhista è descritto come quello nel quale sono inflitte sofferenze di tipo propriamente infernale.

Vi è poi il cammino dei gaki, che è molto frequentato in questo momento, è una via molto ingombra, come le autostrade, con la brama verso gli oggetti di desiderio motivata dall’avidità, dall’insoddisfazione, dall’errare costantemente alla ricerca di qualcosa d’altro, invece di poterci risvegliare, cosa che ci potrebbe soddisfare veramente e che non ha nulla a che vedere con gli oggetti dei quali ci vogliamo appropriare per goderne.

Nella mitologia i gaki sono rappresentati come esseri dotati di un grosso ventre e di una bocca molto piccola che non consente loro di soddisfare l’appetito. Il mondo materialista nel quale viviamo, il mondo dei consumi produce molti gaki, poiché tutta l’attività economica si basa sull’illusione che esistano oggetti da comprare, ottenere, che potrebbero renderci veramente felici. Coloro che sono abbastanza fortunati da procurarseli incontrano spesso una forte delusione, rendendosi conto che non è questo che soddisfa veramente, mentre coloro che vivono nella miseria hanno una brama costante di oggetti che non possono ottenere. In entrambi i casi è doloroso.

C’è poi il mondo, il cammino degli animali, che rappresenta un modo di vivere dominato principalmente dai bisogni basici, che certo devono poter essere soddisfatti per sopravvivere, ma che spesso diventano un’ossessione. Ad esempio si ha bisogno di mangiare per vivere, ma a volte certe persone sembrano vivere per mangiare. Si ha bisogno di dormire per riposarsi, ma certuni sono affetti da un eccesso di sonno, hanno difficoltà ad alzarsi il mattino, sono molto pigri e non riescono a scuotersi dal torpore. Altri sonno ossessionati dai desideri sessuali che certo sono alla base dei desideri sani, non fosse che perché condizionano la sopravvivenza dell’umanità, perché possono essere l’occasione dell’espressione dell’amore, della condivisione, ma talvolta diventano ossessivi, riducendo l’altro a un oggetto, come animali condizionati dai loro ferormoni. Questo cammino animale, in quanto cammino di trasmigrazione, è un cammino legato all’ignoranza della dimensione spirituale dell’esistenza al di là dei bisogni animali, dunque la negligenza di questa dimensione.

Poi vi è il cammino definito umano, nel quale gli esseri sono principalmente preoccupati dalla loro attività professionale, sociale, familiare, che può costituire certo una forma di pratica della percorso, ma che spesso soffoca completamente la nostra possibilità di apertura alla dimensione spirituale poiché le attività familiari, sociali e professionali sono vissute solo per soddisfare l’ego, le ambizioni, gli attaccamenti e le diverse illusioni.

Ognuno di noi, in un momento o in un altro può riconoscersi in uno di questi cammini. Possiamo passare molto rapidamente dall’uno all’altro nel corso di uno stesso zazen in relazione a ciò che domina il nostro atteggiamento del momento, il nostro pensiero, la nostra attività.

Vi è poi il cammino degli asura. Nella mitologia erano una sorta di divinità combattenti o di titani. Si tratta di un cammino molto frequente da sempre, ma particolarmente nel ventesimo e nell’inizio del ventunesimo secolo. E’ il cammino della violenza, dell’aggressività, della guerra, dominato dall’odio, dall’ostilità, dal rifiuto dell’altro, di tutto ciò che disturba l’ego, cosa che insieme all’avidità che condiziona i gaki e l’ignoranza che contraddistingue gli animali costituisce i tre veleni.

Può capitare talvolta che questo cammino si confonda con la pratica della Via quando si entra in rivalità con gli altri alla ricerca di una posizione nello Zen, a tavola, nel dojo, per essere il capo.

La sesta via della trasmigrazione è quella delle deità, deva, che si confonde spesso con una via spirituale perché è contraddistinta dall’attaccamento a stati estatici che possono essere confusi con il risveglio. Ma l’estasi è un momento di benessere molto particolare che può anche essere molto sottile, molto raffinato, ma rimane pur sempre uno stato condizionato, dipendente da cause e condizioni e quindi molto instabile e impermanente, ma soprattutto di natura molto egoista. Si tratta ancora di una sorta di oggetto di godimento personale che si cerca di tenere per sé, di mantenere, perché ci tiene lontani dalla sofferenza, anche se in modo solo apparente, perché sappiamo bene che non durerà e che dunque l’inquietudine e l’ansietà permangono anche se attutite.

Al di là di questi sei cammini, di queste sei vie all’interno delle quali spesso non si fa altro che girare in tondo come uno scoiattolo nella sua gabbia, passando da una via all’altra per tornare alla prima, cominciano le vie del risveglio che tradizionalmente sono divise in quattro tipi : la via detta degli Uditori, coloro che si risvegliano ascoltando l’insegnamento del Buddha, ascoltando predicare le Quattro nobili verità, l’Ottuplice sentiero, riconoscendone la verità profonda, distaccandosi così dalle loro illusioni. Certo non ascoltano solamente, si tratta anche di mettere in pratica la Via insegnata attraverso i precetti, il comportamento giusto, la meditazione e la saggezza, la comprensione.

Vi sono poi le tre altre vie delle quali parlerò questo pomeriggio perché il tempo passa troppo presto, sino ad arrivare alla Via del Buddha. Sicuramente la descrizione che ho appena fatto è conosciuta da molti di voi, ma è importante ricordarla per situare se stessi nella propria evoluzione con la pratica, in rapporto alle vie dell’illusione e alla Via del risveglio, per evitare di confondere l’una con l’altra.

 

 

Venerdì 24 marzo 2006, kusen delle 16:30

 

Questa mattina ho parlato dei sei cammini, delle sei vie di trasmigrazione, che in genere vengono opposte, in quanto samsâra, alla via santa che conduce al nirvâna e che nelle descrizioni classiche comporta quattro livelli di pratica, quello degli Uditori, che talvolta si assimila al Piccolo Veicolo, quindi quella dei Pratyeka Buddha, dunque degli Uditori che si risvegliano all’ascolto, alla riflessione e alla pratica delle quattro nobili verità, dell’Ottuplice Sentiero, dei precetti, della meditazione e della saggezza. In genere si considera che c’è anche la pratica dei Pratyeka Buddha che non hanno ascoltato l’insegnamento, che non hanno ricevuto la trasmissione e che si risvegliano da soli, semplicemente con l’osservazione delle dodici cause interdipendenti, che provocano la rotazione costante della ruota del samsâra, cioè nei sei cammini di cui parlavo questa mattina. Attraverso l’osservazione della vita, la meditazione, la comprensione dei dodici innen, le dodici cause interdipendenti, taluni riescono a risvegliarsi da soli, a liberarsi da soli, ma non avendo ricevuto alcun insegnamento e trasmissione sono cercatori solitari e non sono portati a trasmettere il loro risveglio ad altri. Per questo motivo vengono di solito collocati nella categoria del Piccolo Veicolo rimproverando loro una mancanza di compassione. Si tratta dunque di una via santa, ma non completa.

La Via dei bodhisattvâ viene considerata infinitamente più completa, essi si risvegliano praticando con un maestro, a volte attraverso vite successive con differenti maestri, buddha del passato, camminano perfezionandosi con gli altri, attraverso la pratica delle sei pâramitâ, animati da un grande spirito di compassione che motiva la loro pratica e la loro ricerca della Via. Le ricordo: il dono, i precetti, la pazienza, lo sforzo, la meditazione e la saggezza. Ad ogni tappa del loro cammino i bodhisattvâ sono inclini ad aiutare gli altri, a condividere. Il loro scopo principale è il voto di compassione ed essendo il dono la prima pâramitâ, offrono completamente se stessi alla Via, condividendo con gli altri quanto ricevono.

Vi è infine la Via dei buddha. Questa via non può essere veramente tracciata, non può essere descritta, non consiste in differenti tappe di pratica come l’Ottuplice Sentiero o le sei pâramitâ. E’ al di là di ogni categoria. Si dice talvolta che rappresenta il compimento totale della Via del bodhisattvâ, che conduce alla realizzazione di uno stato di buddha perfetto, un nirvâna definitivo, l’onniscienza. Ma la Via dei buddha va bene al di là dell’essere la decima tappa di una carriera di bodhisattvâ. Una quarta via santa. E’ del tutto indescrivibile, proprio come la coscienza hishiryô in zazen, che si pone oltre ogni termine di paragone, ogni pensiero, ogni concetto, ogni separazione. Certo questo implica il lasciar cadere ogni discriminazione, lo spirito che misura, paragona, oppone il samsâra al nirvâna, attaccandosi al nirvâna e respingendo il samsâra.

Finché ci si trova all’interno di questo tipo di dualità si è ben lontani dalla realizzazione della condizione di buddha. In effetti questa via include tutte le vie, comprese le dieci vie di cui ho parlato, poiché senza la via dell’inferno, dei gaki, degli animali, degli umani, dei titani, dei deva non c’è apparizione dello spirito del risveglio, lo spirito del buddha. Non vi è dunque impegno nella via santa, desiderio di ascoltare il Dharma, di praticarlo. Non può esserci nemmeno la comparsa della grande compassione che motiva la pratica dei bodhisattvâ. Samsâra e nirvâna non possono essere separati. Ancor meno è possibile separarli dal momento che nessuno degli stati corrispondenti a queste vie differenti possiede sostanza fissa. Esistono solo in una totale interdipendenza con gli altri. Come shiki, i fenomeni, le forme, i colori non sono separati né differenti dalla vacuità, così come la vacuità non esiste separata dai fenomeni, costituendone semplicemente la vera natura. E i fenomeni non sono altro se non la manifestazione della vacuità. Come i due lati di una stessa mano. Come il giorno e la notte. Come la pratica e il risveglio. Quindi praticare con l’intenzione di abbandonare definitivamente il samsâra ottenendo una volta per tutte il nirvâna è come camminare verso sud sperando di raggiungere il nord, andando all’opposto della vera realizzazione.

La grande Via include tutti i cammini, è più vasta del Buddha stesso. Anche un buddha non può afferrare completamente la grande Via, la può solo seguire. La Via è completamente al di là del Buddha, proprio come la nostra pratica che è solo lo sbocciare di un fiore in rapporto alla primavera, è un avvenimento della primavera, proprio come zazen è un avvenimento della Via che lo oltrepassa infinitamente. Se comprendiamo intuitivamente ciò allora la nostra pratica non sarà mai limitata dai nostri concetti, dalle nostre categorie mentali, ci trascinerà costantemente al di là dell’al di là di noi stessi e delle nostre concezioni a proposito di buddha, samsâra e nirvâna.

Chiamiamo questo gyobutsu yuigi, l’attività degna, santa dei buddha che praticano, o del risveglio della pratica. E anche se dopo quello che ho appena detto voi, io cerchiamo di considerare questo gyobutsu yuigi, come lo spirito che ingloba gli innumerevoli buddha, ebbene, dice Dôgen, gyobutsu yuigi si pone originariamente ancora molto al di là rispetto a questa discriminazione. E’ qualcosa di indescrivibile, di incontrollabile, di propriamente impensabile, proprio come lo spirito di zazen qui ed ora, completamente al di là di ogni idea che ci si possa fare. E’ hishiryô, al di là del mentale, della coscienza ordinaria.

 

 

Venerdì 24 marzo 2006, mondô

 

- A proposito dell’infinito mi dico….

 

- Infinito?

 

- Verso l’infinito, cioè al di là dell’al di là, è un concetto che ho difficoltà a comprendere dopo questo proposito. Quale atteggiamento avere, perché è vero che se si cerca di avere un obiettivo, fare qualcosa, questa faccenda di camminare verso il nord mentre si vuole andare a sud, questo mi lascia un po’ scosso. Non ho uan domanda vera e propria, perché a volte questo sopprime ogni possibile domanda.

 

- Sono contento che tu reagisca così perché lo scopo di questo insegnamento è proprio di scuotere tutte le nostre tentazioni e i nostri tentativi di afferrare la Via. Questo insegnamento in fondo è destinato a lasciare spazio all’infinito, all’inafferrabile. Questo spazio esiste sempre poiché in realtà non possiamo possedere nulla definitivamente, non abbiamo nulla da rinchiudere nelle nostre categorie mentali. Ma abbiamo l’illusione che sia possibile e spesso si pensa, si vive, si agisce come se avessimo potuto far entrare la Via nel quadro delle nostre categorie mentali, fossero anche buddhiste. E’ la cosa peggiore quando si tratta di categorie buddhiste, anche se evidentemente sono ben fondate. E’ in quel caso che diventa prezioso l’insegnamento di Gyobutsu yuigi, perché quando si arriva a quel punto, magari dopo aver studiato, dopo essersi impegnati nella pratica avendo l’impressione di possedere una visione d’insieme sul buddhismo, della ragione per la quale si pratica e della direzione da seguire, (e tutto questo a livello relativo resta certo vero), c’è poi la via che seguiamo che è ancora oltre tutto ciò. E’ al di là di ogni sorta di idee che possiamo farci in proposito, al di là di ciò che i buddha possono cogliere e insegnare e questa consapevolezza porta a fare marcia indietro almeno un po’, indietro tutta! La Via è sempre più avanti. Al di là. Questo significa che è veramente infinita, inafferrabile, ed è questo aspetto infinito, inafferrabile che è l’essenza stessa dell’esistenza. Che dobbiamo preservare. Conviene dunque che rimanga uno spazio per questa dimensione nella nostra vita e nella nostra pratica. Evidentemente è la dimensione assoluta che deve essere protetta. Non bisogna proteggerla cercando di inquadrarla, dicendo l’assoluto è così, non è così, ma proprio lasciando cadere il nostro tentativo di circoscrivere persino l’assoluto nelle nostre categorie mentali. E’ come in zazen, in definitiva è hishiryô, abbandonare costantemente tutto ciò che si pensa di aver compreso, realizzato, circoscritto. Facendo sempre un passo in più. E’ l’immagine del passo in più sulla cima del palo di trenta metri che si è scalato a fatica, con grandi sforzi. Una volta arrivati in cima e pronti alla ricompensa finale ci si accorge che è lì che si ricomincia: un passo in più. Evidentemente al di là di questo passo in più c’è ancora un passo in più. Non finisce mai ed è questo che è meraviglioso.

 

- Non è in un certo senso presentare qualcosa di pericoloso, dal momento che può essere un po’ destrutturante pensare sempre…non occorre forse ritornare ugualmente all’insegnamento, direi basico, perché altrimenti ci si perde…

 

- Capisco cosa vuoi dire.

 

- Se si perdono tutti i punti di riferimento alcune persone e forse tutte potrebbero entrare in una certa follia.

 

- No, ma certo questa visione dell’infinito, della Via inafferrabile non annulla quella della via a carattere più limitato, che costituisce il carattere reale della nostra esistenza. Dunque non solo la Via intesa come una cosa astratta, metafisica, (e l’essenza stessa della nostra esistenza è così), ma questa dimensione assoluta coesiste costantemente con la dimensione relativa nella quale tutti gli insegnamenti del Buddha devono essere rispettati, seguiti, praticati. Sono del parere che si debbano studiare le Quattro nobili verità, l’Ottuplice sentiero, metterle in pratica, percorrere il cammino del bodhisattvâ, praticare assiduamente le pâramitâ, comprendere l’interdipendenza. Si tratta di un livello relativo. Ciò che è grave è che questo desiderio di struttura fa sì che si è prigionieri della struttura e alla fine si rinchiude la Via in una struttura col pretesto di strutturarsi, di rassicurarsi, di non confrontarsi con la vacuità, l’infinito, l’inafferrabile, l’illimitato. Questo pretesto nasce dalla paura della follia che del resto tutti i mistici hanno rasentato, in quanto al di là di tutte le categorie umane, per paura di non confrontarsi con questa dimensione che in effetti può essere pericolosa per l’ego, ma la conseguenza è che si rischia di ridurre la Via a ciò che il nostro ego vuole accettare e crede di poter comprendere. E improvvisamente ci si ritrova ad aver ridotto la Via ad essere come diceva Kodo Sawaki ‘un miserabile pomodoro ciliegino’ , una piccola cosa. Certo, la paura è come quando si afferma: l’essenza di zazen è abbandonare corpo e mente, dimenticare se stessi. Ma allora ci si dice: va bene, ma se dite questo a qualcuno che non è molto strutturato, border-line, come si dice ora, il poverino scompenserà nella psicosi. Non bisogna soprattutto spingerlo al di là del proprio ego perché quest’ultimo che bene o male lo mantiene in una struttura abbastanza stabile. Questo è certamente vero, ma non è una ragione sufficiente. Non è perché c’è un rischio che si deve regredire paurosamente restando al di qua del limite ove appare il rischio di perdersi. Questo passo indietro, questa paura in relazione al rischio di perdersi è proprio ciò che fa permanere in una via ristretta che non corrisponde alla nostra realtà. Altrimenti si finirebbe per passare accanto alla vera dimensione della vita e ci si perderebbe a mio parere molto più gravemente di quanto non si farebbe rischiando la follia cercando di oltrepassare questo limite. In ogni caso questa è la via dello Zen. Questo significa che in un certo senso è riservata a persone che hanno già una buona stabilità mentale, cioè un ego sufficientemente strutturato che non si lasci destrutturare quando ci si rimette in discussione ai bordi dell’abisso. Si dice sempre che per andare al di là dell’ego occorre avere un ego che funziona. Tutto questo è certo vero, ma al tempo stesso non è una ragione. Al limite preferirei un folle e il rischio della follia. Penso che a volte un folle possa avere molto di più rispetto a qualcuno normale, un’apertura alla dimensione infinita e illimitata dell’esistenza anche nella sua follia ed essere più nel giusto delle persone cosiddette normali. Non dico con questo che si debba diventare folli, ben inteso. Ma al limite che il rischio è forse minore. Io preferirei il rischio della follia piuttosto della chiusura totale nell’ego.

 

- Ad esempio negli autistici si dice che non esiste differenziazione tra loro e il mondo e ciò provoca questa sofferenza. E’ anche vero che in un certo senso hanno raggiunto, sono forse al di là dell’al di là, dal momento che…

 

- No, sono ancora al di qua, perché per essere al di là di qualcosa occorre averlo realizzato. Per essere al di là del nostro ego, della nostra individuazione, occorre essere divenuti individui. Non dobbiamo confondere la dimensione al di là dell’ego con la regressione psicotica o con il fatto di non avere avuto accesso nemmeno a una coscienza di sé. E’ chiaro che bisogna avere una coscienza di sé per poter andare al di là di se stessi. Per di più, se si parla di autismo, esiste una componente biologica che si mostra sempre più evidente e che riconduce a una malattia e in nessun caso a un cammino. Cosa ti preoccupa? La tua è una domanda teorica?

 

-No, è istintivo. Perso che o si gioca il gioco e non è facile, o si rimane in una dimensione intellettuale e si apprende, si ragiona…ma alla fine, se si vuole veramente vivere la Via, occorre andare al di là di ciò. Nella mia esperienza ci sono stati momenti nei quali in questa dimensione dell’abbandono della presa sono arrivate molte paure.

 

- Occorre attraversare queste paure, ma usando delle precauzioni. Un alpinista avrà paura di cadere nel precipizio, ma se prende la precauzione di imparare come si marcia in montagna facendosi aiutare da una buona guida, cercando di seguire il ritmo della sua musica interiore, avrà tutte le possibilità di riuscire. Se invece si mostra troppo intrepido e stolto e si lancia in avanti senza considerare i rischi del viaggio, allora rischia grosso. Effettivamente bisogna sapere che il cammino non è scevro di pericoli. E’ la ragione per la quale è importante praticare insieme agli altri, guidati da un maestro, accompagnati da una solida comprensione dell’insegnamento e della dottrina, perché essere al di là del buddhismo non significa non conoscere l’insegnamento, significa non ridurlo a un insegnamento verbale, a dei concetti e delle idee. Si tratta di andare a vedere di cosa si tratta a livello della realtà vissuta in questo insegnamento. Oltrepassare le parole che puntano in quella direzione. E’ giusto dunque aver paura, la paura rende prudenti, previene i pericoli, ma essere troppo sottomessi alla paura ci limita e ci impedirebbe di impegnarci in qualsiasi cosa. C’è un uso positivo della paura, ma bisogna anche superarla, attraversarla. Altre domande?

 

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- La mia domanda non è molto lontana da quanto è appena stato detto. Vorrei solo aggiungere che da oltre un secolo molti filosofi ma anche psicologi hanno riflettuto su ciò che era stato scoperto a partire dal Buddha da più di duemila anni, ciò che è innominabile, che i filosofi hanno chiamato la Cosa, o l’irriducibile Reale, che ritroviamo in Lacan, qualcosa che oltrepassa assolutamente ogni pensiero. Ritengo che sia strutturante realizzare ciò, comprendendo che esiste una mancanza irriducibile e che abbiamo impiegato molto tempo a ricollegarci con questa idea fondatrice del Buddha.

 

-C’è una parte inafferrabile.

 

- Ecco ! Una parte irriducibile. La mancanza. La Cosa. Il Reale.

 

- Sì, ma diffido della nozione di mancanza in psicoanalisi, non bisogna mischiare tutto.

 

- Ecco, penso che cercasse di avvicinare un po’ questo concetto, ne mostrasse l’aspetto stranamente strutturante. Nell’autismo non esiste questa mancanza. Rimane all’interno di questa compiutezza che impedisce di andare verso l’altro.

 

- Sì, ma quando vediamo il comportamento delle persone autistiche si può dubitare di questa compiutezza. Quando passano le loro giornate ad oscillare o a picchiare la testa contro i muri, si può immaginare di trovare espressioni di compiutezza migliori.

 

- La compiutezza mortifera in questo caso, quella che non lascia spazio proprio a questo amore. Ma la mia domanda, che mi frulla in testa da un po’, riguarda la posizione del desiderio proprio nell’insegnamento del buddhismo, perché a quanto ho capito il desiderio è la prima origine di ogni sofferenza. Per parlare nuovamente di struttura, in un certo senso…

 

- So dove vuoi arrivare, d’accordo, il desiderio è strutturante.

 

- No, assolutamente. Cioè, è strutturante, ma proprio ciò che differenzia il desiderio, perché nel buddhismo si dice che per evitare la sofferenza non bisognerebbe essere dentro al desiderio. Il desiderio di trasmettere, di insegnare, il desiderio di vivere, di guardare un fiore, è anche questo tipo di desideri che ci trasporta. C’è questo paradosso che non riesco bene a risolvere tento più che in termini psicologici il malinconico è proprio colui che si trova all’interno della mancanza di desiderio assoluta, nella depressione, e questa mancanza di desiderio è totalmente destrutturante e fonte di una enorme sofferenza. Questa mattina hai risposto in parte relativamente ai diversi gradi di desiderio…

 

- Un po’. D’accordo, ora ho capito ciò che vuoi dire e dove vuoi arrivare. E’ vero che quando si è terapeuti ci si rende conto, e questo mi angoscia, che aiutare le persone significa spesso metterle in contatto con il loro desiderio. Molte persone sono depresse e la depressione significa mancanza assoluta di desiderio. E poiché non desiderano più nulla si trascinano come fantasmi nella vita, non sono più motivati da nulla e questa è la depressione totale che può arrivare fino al suicidio. In qualità di terapeuti si è spesso obbligati a stimolare, a soffiare sulla piccola brace dell’ombra di desiderio, per cercare di far nascere una fiamma che possa animare queste persone che vivono una carenza di desiderio. Il Buddha non intendeva questo quando parlava del desiderio come causa di sofferenza. Indicava ciò di cui parlavo questa mattina, l’eccesso di desiderio, questa avidità che è condizionata da uno sbaglio. Una svista. Cioè un’illusione. L’illusione che esista da qualche parte un oggetto, qualcosa, un essere perfettamente soddisfacente che possa colmare la mancanza che sentiamo nel non riuscire ad essere solo ciò che siamo, a nostro parere insufficienti. Perché non siamo autistici. Abbiamo questa illusione che viene costantemente disillusa. Quando si arriva a una certa età, dopo aver creduto che questo oggetto esista da qualche parte, nel giro di un certo lasso di tempo si finisce col rendersi conto, dopo aver corso dietro a vari oggetti, che siano persone, ideali, passioni di ogni tipo, che tutti questi oggetti sono presto o tardi deludenti, insufficienti. Non credo di essere pessimista affermando ciò, è quanto si sperimenta. Credo ci si inganni nell’immaginare che esista un oggetto che possa soddisfare il nostro desiderio fondamentale. La grande realizzazione consiste proprio nell’accettare a un certo punto che nessun oggetto può colmare il nostro desiderio fondamentale, ma non perché è il desiderio di essere il pene o il fallo della propria madre, secondo l’interpretazione molto riduttiva della psicoanalisi, non si tratta di questo, di essere l’oggetto soddisfacente del desiderio dell’altro e tutte queste elucubrazioni lacaniane, credo davvero che non si tratti di questo. In realtà il nostro desiderio fondamentale consiste nel poter vivere in armonia con la realtà delle nostra esistenza, nell’essere in armonia con la Via, con ciò che ci fonda, il che è molto al di là del desiderio sessuale o del desiderio di essere per l’altro qualcosa di pienamente soddisfacente. Credo che il nostro desiderio fondamentale sia un desiderio di risveglio, che spesso non è cosciente e che si trasforma, invece di essere canalizzato nella direzione della pratica della Via e della pratica del risveglio, sostenuto da un grande desiderio che è quello del bodhisattvâ, il desiderio di realizzazione e di condivisione di questa realizzazione con gli altri. Qsuesto desiderio si smembra in una moltitudine di piccoli, medi, grandi desideri, sino a voler essere presidente della repubblica o ambizioni simili, sempre disattese e allora improvvisamente questa disillusione provoca l’avidità, perché l’essere delusi ha l’effetto dell’olio sul fuoco, facendoci desiderare ancora, in maggiori quantità. Finché si ha energia questo processo può stimolare, ma può anche condurre a una catastrofe, cioè un esaurimento, una disillusione totale che, poiché non ci si è resi conto del proprio sbaglio, fa crollare totalmente. E’ la depressione, può essere il suicidio, quando avrebbe forse potuto andare diversamente, ma sarebbe stato necessario un incontro, fare dietro front, contattando il proprio autentico desiderio, scoprendo che questo desiderio si realizza non nell’ottenimento di un oggetto ma nell’abbandonare la presa.

 

 

Sabato 25 marzo 2006, kusen delle 7:00

 

Per praticare zazen occorre avere una certa idea del modo di praticare, come sedersi, come respirare, come pensare senza attaccarsi ai propri pensieri. E’ il senso dell’insegnamento indicare il cammino e quando si è impegnati nella pratica qui ed ora mentre si sta facendo zazen, completamente concentrati sulla postura del corpo, totalmente intimi con la respirazione, lasciando passare ogni pensiero senza attaccarci ad esso, in questa pratica si va al di là di ogni idea a proposito di zazen. Lo stesso movimento della pratica ci conduce al di là di ogni idea. Proprio come la realtà è al di là del pensiero. Proprio come noi siamo al di là di ogni idea a proposito di noi stessi, anche se si pensa: sono una persona così, con un certo carattere e certe caratteristiche, la realtà della nostra vita è ben al di là delle idee che ci possiamo fare in proposito, ed è con questa realtà che diventiamo intimi praticando zazen. Ma in questo movimento di andare al di là bisogna cercare di non correre troppo, bruciando le tappe e pensando di essere pervenuti al di là dell’al di là. Si tratta di una pratica di ogni istante, di un movimento di ogni istante, talvolta ci si trova nell’oscurità, nella confusione, lo spirito non è chiaro, si è preda del torpore, della sonnolenza. Si può cercare di superare questo stato di kontin con la concentrazione, dicendosi io sono già al di là e continuare a dormire, ma questa non è la pratica autentica. Concentrandosi intensamente sulla postura del corpo, sulla respirazione, lo spirito progressivamente diventa più chiaro, ma evidentemente non resta costantemente chiaro, dobbiamo dunque ritornare a questa concentrazione sul corpo e la respirazione nel corso della giornata, ogni volta che è necessario ritrovare il centro e chiarificare il proprio spirito, non solo nel caso sia intorpidito, ma anche agitato o assente, altrove, distratto. Ma la sola concentrazione, la sola chiarificazione dello spirito non sono sufficienti. C’è un al di là rispetto alla concentrazione che consiste nell’apprendere a vedere con uno spirito chiarificato, vedendo cosa avviene qui ed ora, in quale stato, in quale cammino mi trovo in questo momento e soprattutto cosa è questo ‘io’ che trasmigra di cammino in cammino in base alle sue emozioni, ai suoi desideri. Ma la sola osservazione potrebbe bloccarci in una analisi infinita, alla fine lo spirito diventa solo complicato e non si va avanti. Bisogna andare al di là anche dell’osservazione, realizzare la vacuità di ciò che si osserva e il carattere inafferrabile del sé che osserva. Possiamo allora abbandonare la coscienza dualistica ed identificarci con un osservatore che crea degli oggetti da osservare, dei pensieri, degli stati d’animo, senza più creare separazioni, dualità. E’ ciò che chiamiamo ‘pensare dalla profondità del non pensiero’, come diceva Dôgen, hishiryô. Al di là del pensiero che separa, misura, paragona, pone un io di fronte a un tu, a un mondo esterno. Talvolta si definisce questo con il termine ‘spirito vasto di Buddha’, che ingloba, oppure come un grande specchio che riflette ogni cosa così come è, senza pensare. Ma la realtà della nostra pratica è ancora al di là di questo, al di là del pensiero che lo spirito di zazen è lo spirito vasto di Buddha che ingloba ogni cosa. In altre parole la pratica è sempre al di là dell’idea che ce ne facciamo e questo è un punto fondamentale. Non dobbiamo attaccarci alle idee che ci facciamo in relazione alla pratica. L’insegnamento ci indica una direzione verso la quale andiamo, camminiamo e questo cammino, il fatto di andare, è gyo, la pratica. Certo questo cammino ha bisogno di essere illuminato per evitare di finire in un vicolo cieco o di sbagliare direzione, ma l’esperienza di camminare è completamente al di là dell’idea che ce ne facciamo. Ed è bene che sia così. Anche se nella nostra pratica zazen è molto importante, anche se in zazen si raggiungono talvolta stati di grande concentrazione, di samâdhi, la via di Buddha è la via della pratica al di là degli stati mentali che si possano raggiungere, per sottili che siano. Il Buddha stesso insegnava: “Gli stati mentali che si possono raggiungere meditando sono dimore felici, brahma vihara, ma non sono un autentico sradicamento, lo sradicamento dalle cause della sofferenza.” Questo sradicamento si attua piuttosto quando ci si astiene dal creare sofferenza nella vita quotidiana, praticando ciò che è giusto, abbandonando i nostri atteggiamenti egoistici, armonizzandoci con gli altri. In altre parole l’autentico insegnamento del Buddha si identifica totalmente con la pratica di ogni istante e non si limita ad una esperienza spirituale, a una condizione dello spirito per quanto profonda possa essere. Durante la sesshin ci viene offerta l’occasione di osservare come tutto questo sia praticato corpo e mente in unità, nella relazione con gli altri, nelle azioni quotidiane.

 

 

Sabato 25 marzo 2006, kusen delle 11:00

 

Nella continuazione del Gyobutsu yuigi dello Shôbôgenzo, Dôgen dice: “Per ciò che concerne la dignità, l’attività degna, yuigi, dei gyobutsu, cioè dei buddha che praticano, c’è un punto da chiarificare. Il fatto che non ci siano separazioni tra Buddha e sé, un insegnamento che viene spesso trasmesso, significa che tutti i buddha, tutti i risvegliati in tutte le dieci direzioni hanno un totale distacco. Così un antico patriarca aveva detto di realizzare la verità e di praticarla nella vostra vita quotidiana.”

Quando realizziamo questo ogni cosa, il nostro corpo, le nostre azioni sono il risveglio di Buddha, sono unità con l’attività degna della pratica di Buddha. Ognuno di questi elementi, cioè ogni cosa, il corpo, l’azione, la pratica di buddha, è completa in se stessa, spogliata da ogni dualismo. Questa espressione è importante, il fatto che non c’è separazione tra buddha e sé, perché è alla base della nostra fede che fonda la nostra pratica. La nostra fede non è la credenza in qualche verità nascosta, in qualche buddha lontano, ma è l’intuizione intima che non c’è separazione tra Buddha e sé, semplicemente perché Buddha è il risveglio a se stessi. Questo risveglio a se stessi non ha nulla a che vedere con i desideri del nostro piccolo ego, non significa imparare a conoscere la propria personalità, il carattere, ma significa diventare intimi con la dimensione profonda della nostra esistenza, quella nella quale la nostra esistenza è pienamente collegata con quella di tutti gli esseri. Chiamiamo questa relazione engi, ed è ciò che fonda l’esistenza di tutti gli esseri, possiamo anche dire che è l’ordine cosmico, il Dharma, ciò al quale il Buddha si è risvegliato.

Se si dice che tutti i buddha in tutte le direzioni possiedono un totale distacco, questo distacco è la funzione di engi, questa interdipendenza, poiché quando si realizza che si è in interdipendenza con tutti gli esseri non è più possibile attaccarsi al proprio piccolo ego. Certo ne vediamo l’esistenza relativa come una costruzione mentale, che offre i punti di riferimento necessari nella vita relazionale con gli altri, ma tutto questo non deve diventare rigido, è come una pelle. Come la nostra pelle che contiene le diverse parti del nostro corpo e consente loro di rimanere insieme. Se però questa pelle si ispessisce, diventando una corazza, persino un’armatura, allora si perde la vera natura della nostra vita che è respiro con tutto l’universo. Ci si ritrova ad essere chiusi, prigionieri di noi stessi, molto lontani dalla realtà della nostra vita. Per questo motivo anche se abbiamo bisogno di un certo senso della nostra identità personale, dobbiamo anche considerarla come molto relativa, relazionale, in quanto ha senso solo in relazione con gli altri, non esistendo senza gli altri. In altre parole non c’è io senza tu. A quel punto approfondire la propria vita non significa diventare egotici, rafforzando le barriere del proprio ego, ma piuttosto sviluppare la facoltà di empatia con gli altri, smettendo di arroccarci sulle nostre posizioni, mettendoci al posto dell’altro. Questo significa non dimorare su una posizione fissa. Se riusciamo a realizzare questo le relazioni con gli altri diventano fluide, invece di essere dense di conflitti, di incomprensioni. Cambia anche a un livello più esteso, relativo alla nascita dei grandi conflitti, delle guerre, nelle quali ognuno è arroccato sulle proprie posizioni. I buddha nelle dieci direzioni hanno un totale distacco, sono cioè totalmente distaccati da se stessi, hanno la capacità di far propria la situazione ed è questa la base, il fondamento della simpatia, della compassione e dell’atteggiamento benevolo nei confronti di tutti gli esseri, che non è originato dalle nostre preferenze, dal fatto che ci è naturale fare del bene a coloro che amiamo, in ogni caso a cercare di contribuirvi, ma anche nei confronti degli esseri che ci sono apparentemente indifferenti perché non li conosciamo, e anche verso coloro che ci sono ostili o che noi crediamo siano ostili. Un aspetto importante di Gyobutsu yuigi consiste proprio nel realizzare la verità della nostra vita e praticarla nella vita quotidiana. Spesso le persone che praticano la Via hanno l’impressione che ci sia una verità nascosta che sfugge loro e ne consegue che molti amino l’esoterismo. Dôgen affermava che nulla è nascosto in questo mondo. In questo senso termini quali parole segrete, mitsugo, il risveglio segreto, la pratica segreta, la trasmissione segreta diventano chiare. Dôgen ha detto: “ Realizziamo la Via, la verità, che i buddha le preservino attentamente poiché ognuno di noi è nello stesso ambito di risveglio del Buddha.” Questo significa non creare separazioni tra pratica e risveglio. E’ quanto il Maestro Dôgen aveva appreso presso il vecchio tenzo che faceva seccare i funghi in pieno sole al quale Dôgen stupito aveva chiesto perché piuttosto non si concentrava sui sûtra. Il monaco gli aveva detto: “Mio giovane amico, voi non comprendete l’autentico insegnamento del Buddha.” “Qual è questo insegnamento?” aveva chiesto Dôgen. E il tenzo aveva risposto : “In tutto l’universo non vi è nulla di nascosto.” In altre parole la Via esiste ovunque. Anche nella semplice azione di fare essiccare i funghi al sole, soprattutto quando questa azione è compiuta come un fuse, un dono per il Sangha.

 

 

Sabato 25 marzo 2006, mondô

 

- Mi pongo semplicemente la domanda circa i tre gioielli, Buddha, Dharma, Sangha…

 

- Parla più forte perché io ti sento, ma chi è in fondo non ti sente.

 

- I tre gioielli sono Buddha, Dharma e Sangha. Mi chiedevo cosa contraddistingue il Sangha e fino a dove arriva. Deve comprendere tutti i praticanti Theravâda, Hînayâna, Mahâyâna o è solo la comunità che è attorno a un maestro ?

 

- In effetti ci sono modi differenti di designare il Sangha. Si tratta di cerchi più o meno larghi. Di norma il Sangha è un gruppo di persone che praticano il Dharma del Buddha sotto la direzione di un successore del Buddha o di uno dei suoi successori nella linea di discendenza di un maestro. Occorrono questi tre elementi perché ci sia un Sangha. Se invece si tratta di persone che decidono autonomamente di riunirsi questo non forma veramente un Sangha specie se non studiano l’insegnamento e se non c’è nessuno che le guidi nella pratica. In genere si dice il Sangha, ad esempio del dojo di Nizza o del tale godo, ad esempio Roland Rech. Per molto tempo si è detto il Sangha del Maestro Deshimaru. Ora coloro che hanno seguito il suo insegnamento hanno costituito ciascuno un proprio Sangha o lo stanno facendo, quindi ora esistono delle comunità all’interno di una comunità più grande. Tenendo poi conto dei nostri voti di bodhisattvâ lo scopo non è quello di creare un piccolo cerchio ristretto di persone che seguono personalmente, ma di considerare, ed in fondo è il mio modo di vedere, che tutti gli esseri hanno lo spirito del risveglio, tutti gli esseri sono fondamentalmente buddha e ricercano il risveglio anche se non ne sono coscienti, coloro che ne sono meno coscienti sono, come dicevo ieri, coloro che cercano disperatamente soddisfazione perseguendo ogni sorta di oggetti, andando di delusione in delusione. Ma si tratta in realtà di un errore grossolano, che ha impedito di percepire come il senso dell’esistenza umana sia risvegliarsi. Credo che nel profondo tutti gli esseri abbiano bisogno di questo, questa ricerca del Dharma. Potenzialmente il Sangha comprende tutti gli esseri sensibili, ma evidentemente si tratta di un ideale. In pratica non si può veramente parlare di Sangha se non c’è un gruppo che si riunisce regolarmente per studiare il Dharma sotto la direzione di un maestro.

 

-Sangha è allora la riunione di tutti i discepoli di un maestro ?

 

- Se parliamo di Sangha buddhista è così e in effetti si potrebbe dire, dal momento che ci si ricollega tutti, quali che siano le scuole, al Buddha, che esiste una sorta di Sangha mondiale di tutto il buddhismo universale in cui tutti fanno riferimento a Shakyamuni Buddha, come la Chiesa universale fa riferimento a Gesù Cristo.

 

- Cosa è comunemente ammesso nella comunità buddhista in generale ?

 

- Ciò che è comunemente ammesso è che si tratta della comunità di persone che seguono il Dharma sotto la direzione di un maestro o di un suo rappresentante nella successione, in ogni caso un insegnante. Ecco, è questo che è ammesso. Perché poni questa domanda ?

 

- No, mi chiedevo se, andando a vedere pratiche differenti era possibile essere considerato come buddhista e praticante, che si vada in una pagoda o altrove…

 

- Generalmente nel buddhismo lo spirito è aperto e tollerante e dunque tutti coloro che ricercano il Dharma del Buddha sono i benvenuti in tutte le pratiche buddhiste. Poi evidentemente esistono delle regole particolari nella pratica e quando si arriva in un luogo è dunque necessario armonizzarsi con il modo di praticare di quel luogo. Non è possibile dire io vengo da un dojo zen Sôtô e ho l’abitudine di fare zazen faccia al muro e non mi va bene che voi lo facciate rivolti verso il centro della stanza, dunque farò come sono solito fare. Questo non è corretto. Anche se si è persuasi che il proprio modo di praticare sia il migliore quando si va in un altro luogo di pratica o quando si incontrano i membri di un’altra scuola occorre informarsi del loro modo di praticare e poi armonizzarsi umilmente con loro. Senza cercare di dire: oh, voi fate così ma non va bene, sapete, nel nostro dojo facciamo così ed è meglio. Questo non è un atteggiamento buddhista. Il giusto atteggiamento è armonizzarsi. Anche all’interno dello Zen, ad esempio nel nostro Sangha, parlo del Sangha del Maestro Deshimaru, l’AZI se vogliamo, ebbene, ora esistono differenti stili non tanto di pratica di zazen, ma vi sono persone che insistono maggiormente sui rituali, che sono molto puntigliose sul modo di agire e che hanno sofisticato un pochino i rituali. Altri come me non ci tengono troppo. Ma se alcuni miei discepoli vanno in un luogo di pratica diretto da un altro godo che insiste sui particolari rituali, io gli dico di armonizzarsi con chi pratica là. Non è certo il caso di dire: ascoltare, mi date fastidio con i vostri riti, noi a Nizza o altrove facciamo così ed è sufficiente. Occorre armonizzarsi veramente. Questo non significa che dovete adottare per la vostra pratica questi modi, ma finché siete in quel luogo dovete armonizzarvi. E questo è importante soprattutto nel Sangha perché è un luogo che deve essere stimolante per la pratica di ognuno. Ciò che conta è lo spirito che regna all’interno di un Sangha e deve trattarsi di uno spirito che non cerca l’aiuto reciproco come tra un gruppo di amici che hanno un hobby in comune, ma che cerca di aiutarsi vicendevolmente sulla via del risveglio, creando insieme l’atmosfera più stimolante attraverso il proprio esempio, la propria pratica, il proprio modo di mettersi in relazione con gli altri, creando un’atmosfera che incoraggi la pratica, vegliando affinché ciò si realizzi, per questo il Sangha è prezioso. E molto spesso nello Zen si è un po’ troppo centrati sullo zazen e non ci si prende abbastanza cura delle relazioni all’interno del Sangha, delle relazioni all’interno di un dojo e questo è un aspetto molto importante. Vi invito a considerare veramente il Sangha come un tesoro e ad averne cura. Tu pratichi dove ?

 

- A G.

 

- D’accordo. Buona continuazione.

 

* * * * * * * * * *

 

- Ieri abbiamo parlato di persone depresse, che non avevano più desideri. Hai detto che i terapeuti si sforzano di rianimare i desideri, anche un oggetto di desiderio. Questo non funziona sempre. Ho sentito spesso dire che vivere è desiderare di vivere. E’ vero che quando si incontra qualcuno che non ha più molti desideri… (inudibile)… è un po’ l’immagine di un albero che non può più fiorire. Mi chiedo: la pratica di zazen per quanto credo di aver capito dal tuo insegnamento è una confronto con la vacuità, significa affrontarla. Questa confronto molto violento che avremmo tendenza ad evitare, può far fiorire nuovamente?

 

- Certo, perché il confronto con la vacuità non è il confronto col nulla o con l’inesistenza, che fa paura alle persone quando sentono parlare di vacuità e crea sempre confusione. Il confronto con la vacuità è il confronto con la vacuità delle nostre fabbricazioni mentali, col fatto che tutte le nostre concezioni, le nostre idee hanno una realtà relativa come tutto ciò che è costruito a partire dal linguaggio che ha esistenza e senso solo in relazione ad altre parole e dunque ad altri concetti ed è attraverso questi concetti che si cerca di dominare la realtà. E per questo stabiliamo un certo numero di cose. C’è l’io, è il primo grande concetto e poi si cerca di organizzare il proprio mondo attraverso un certo numero di concetti, di idee. Certo è utile per orientarsi nella vita quotidiana e si ha bisogno di questo punto di riferimento. Il problema che sottopongo e che denunciava anche il Maestro Deshimaru con la metafora del cervello sinistro che invade tutto, che vale per quello che vale ma che designa bene il problema, il problema dicevo è che a partire da questa tendenza a voler comprendere il mondo attraverso dei concetti e a bloccarlo nella griglia di un mentale che cerca di dominare la realtà, si perde il contatto con un’altra dimensione della vita che non si lascia circoscrivere dalle categorie mentali e dai concetti. Ed è proprio la vacuità che ha come scopo di liberarci dell’attaccamento ai concetti. Cioè: mantenete pure le vostre concezioni che hanno utilità in certi ambiti ma non lasciatevi imprigionare in una visione concettuale ed intellettuale della vita, della vostra esistenza, perché esiste un’altra dimensione della realtà che non può essere circoscritta. E’ questo che consente all’albero di fiorire. Credo che essere dominati da un mentale che classifica sempre e che cerca di organizzare il mondo attraverso dei concetti sia quello che soffoca ed è quello che si è definito il disincanto del mondo, cioè la riduzione della realtà a ciò che può essere misurato, concettualizzato, classificato, come fosse l’oggetto delle scienze. Disgraziatamente ora vi è una sorta di rinuncia a lasciar posto a una visione differente e la pratica di zazen, relativizzando le nostre categorie mentali, riesce proprio ad aprire un altro modo di percepire il mondo, un modo più poetico per quanto riguarda il tipo di approccio alla visione del mondo, un modo più empatico, più benevolo, compassionevole per quanto riguarda la relazione con gli altri percepiti non più come rivali o oggetti di conquista, o persone che possono servirci per soddisfare i nostri desideri, ma riconosciuti come esseri con i quali ci si sente completamente in simpatia perché si condivide la stessa condizione, compresa la stessa condizione di sofferenza e le stesse aspirazioni. Nel mondo attuale, in particolare nel mondo del lavoro, spesso le persone sono ridotte ad oggetti intercambiabili, numeri, e anche nelle relazioni interpersonali l’altro è spesso trattato solo come un oggetto di soddisfazione da gettare quando è finito il suo ruolo. A mio avviso questo è il risultato derivante dal fatto di vivere nella nostra civiltà, nella nostra cultura materialista, dominata dallo spirito calcolatore, cioè dal mentale. Nello Zen shiryô definisce lo spirito che calcola, che misura, aspetto che dovresti conoscere dal momento che sei un filosofo e che era stato denunciato con forza da Heidegger, quando parlava dello spirito della tecnica, che cerca non solo dai tempi di Cartesio, ma ancor prima, sin dalla Bibbia di rendersi maestro e dominatore dell’universo. Questo spirito non rende felici e non permette di fiorire. Del resto nello Zen esiste l’espressione ‘l’albero morto che fiorisce nuovamente’. Questo albero morto che rifiorisce, l’albero secco, ha un aspetto totalmente disseccato e corrisponde nello zen alla totale spoliazione. Significa lasciar cadere le pelli, le decorazioni, le scorze, tutto ciò che ingombra, arrivando veramente all’essenza, al cuore dell’esistenza, come un albero che lascia cadere le foglie, che lascia cadere tutto. A partire da questa spoliazione, da questo abbandono della presa, datsu raku, c’è qualcosa che rifiorisce. Questa immagine dell’albero morto che rifiorisce è molto forte ed è spesso impiegata nella poesia zen, ma non è assolutamente macabra, è piuttosto l’immagine della morte e della rinascita, di un rinnovamento che in una vita umana si realizza quando si attraversa la vacuità, che non è qualcosa su cui ristagnare, si attraversa la vacuità come occasione di purificazione da tutti i nostri attaccamenti, le concezioni che ci bloccano, che ci soffocano, impedendoci di avere un’altra visione del mondo. Non si deve temere la vacuità e penso che in certi casi anche la depressione, cioè la perdita di ogni desiderio possa essere un cammino iniziatico, poiché può essere in definitiva il confronto con l’illusione che esisteva nei desideri che ci facevano vivere, che ci portava sino a un certo punto ma poi, poco a poco, di delusione in delusione, si finisce per non credervi più. C’è chi a questo punto entra totalmente in depressione, ma ci sono anche persone che, a partire da questo decidono di fare dietro front e che si dicono : sino ad ora ho sbagliato strada. In questo caso la depressione diventa l’occasione di cambiare totalmente. Questo naturalmente implica l’essere ben supportati, perché altrimenti c’è il rischio di crollare del tutto. Un depresso può in ogni caso trasformare la sua depressione nell’occasione di una metamorfosi, di una trasformazione della sua vita. Tutte le metamorfosi consistono innanzi tutto in una perdita, nell’elaborazione del lutto in rapporto a un certo numero di cose, nell’abbandono di una gran parte degli aspetti relativi a ciò che si era prima per divenire qualcosa d’altro. Ritroviamo lo stesso tema nel cristianesimo quando si parla di ‘abbandonare l’uomo vecchio’. Cristo ha mostrato che si poteva vivere in modo diverso, a partire però da un grande abbandono di tutto. Non smetteva mai di ripetere questo e il Buddha nel suo insegnamento dice la stessa cosa. Abbandonate tutti i vostri attaccamenti egoistici e potrete incontrare il regno dei cieli. Egli stesso ha vissuto con la sua morte una rinascita, è veramente il senso profondo della morte, un totale abbandono della presa per rinascere alla propria dimensione autentica, divina. In fondo lo Zen, come movimento spirituale, partecipa dello stesso movimento, senza riferirsi a un padre, ma avendo fiducia nel fatto che è già in noi.

 

- Avrei un’altra domanda.

 

- Saranno veramente felici coloro che vorrebbero continuare ma che non hanno domande da porre. Sei il delegato sindacale, l’animatore del mondô !

 

- Si tratta sempre del kusen di venerdì nel quale hai parlato delle sei vie negative.

 

- Delle sei vie di trasmigrazione.

 

- E poi qualcuno nel mondô ha parlato della paura della follia e tu hai detto che certamente non si deve andare verso la follia ma che al tempo stesso non si doveva esserne separati del tutto.

 

- No, non ho detto questo. E’ bene che tu parli di ciò perché mi offri l’opportunità di precisare cosa volevo dire. Non ho detto esattamente questo. Ho detto: non è perché esiste il rischio di cadere nella follia che si deve rinunciare ad imboccare un cammino di spoliazione in rapporto ai nostri attaccamenti egotici. Altrimenti si corre il rischio di rimanere prigionieri nella paura, che ci porta a non andare oltre i limiti del mentale razionale impedendoci di scoprire un’altra dimensione. In effetti un rischio permane, ma avevo detto che questo rischio è estremamente ridotto se si pratica sotto la direzione di un maestro o all’interno di un Sangha nel quale si è sostenuti dagli altri che possono richiamarci se imbocchiamo una direzione sbagliata. Ma non è di questo che si tratta. Non si tratta di flirtare con la follia, qui si tratta della paura di perdere l’ego, della paura di abbandonare. Abbandonare l’ego non significa perderlo. Perderlo sarebbe la pura e semplice follia, la schizofrenia, la psicosi. Abbandonare l’ego significa non essere più prigionieri delle sue categorie e questo ci riporta al tema precedente. Significa andare al di là, rimanda a un rischio che è inesistente se si pratica nelle migliori condizioni e non ha nulla a che vedere con il flirtare con la follia. Del resto il Maestro Deshimaru diceva sempre : “Lo Zen non è la ricerca di condizioni speciali dello spirito, significa piuttosto ritornare alle condizioni normali.” Nella pratica dello Zen esiste dunque una salute mentale profonda e non un aspetto per il quale si flirterebbe con la follia. E’ vero però che molti non osano immergersi profondamente nella meditazione perché vi è un profondo abbandono in relazione al funzionamento del mentale ordinario, legato allo spirito shiryô, lo spirito che misura, che calcola, che paragona attaccandosi a tutti i suoi punti di riferimento per paura di ritrovarsi di fronte al vuoto, perché immaginano che quel vuoto possa condurre alla follia e dunque rimangono sempre un po’ indietro, senza veramente abbandonare la presa, senza potersi liberare né accedere a un’altra dimensione. E’ questo che dicevo, questa paura costituisce un rischio ancora più grande della decisione di affrontare questo rischio per liberarci di ciò che ci blocca. Questa paura della follia non dovrebbe impedire di liberarci. Questo è quello che volevo dire. Non so se detto questo la tua domanda può continuare, ma è questo che volevo dire.

 

-La domanda è relativa a questo cammino che è un percorso di decostruzione, a volte persino di depersonalizzazione.

 

- Se c’è depersonalizzazione è davvero provvisoria, può durare il tempo di uno zazen ma non è una depersonalizzazione nella vita.

 

- Ecco, non si tratta di una depersonalizzazzione totale ma di un lavoro, un cammino del quale si ha spesso paura, come dicevi prima si rimane indietro, ma mi chiedevo se in fondo, per cominciare un lavoro in profondità rispetto a questo movimento di abbandono della presa, nel quale si decostruisce la piccola individualità che ci eravamo creati, forse prima non si dovrebbe, prima di toccare qualcosa, essere stati toccati da una condizione, aver realizzato una certa realtà fondamentale…e se il fatto di essere stati toccati non possa darci maggiore fiducia e poi ci si dica: potrei distruggere le cose…

 

- Sì, sono d’accordo. E’ quello che ho sentito e che mi ha permesso di continuare la pratica. Ma questo processo non è necessariamente lo stesso per tutti, non è detto che capiti a tutti. Essere toccati sin dall’inizio, addirittura prima di fare zazen, da un’esperienza di questo tipo che dà fiducia perché si sente che ci si può fondare su qualcosa d’altro rispetto al nostro piccolo ego e alle sue costruzioni mentali conferisce fiducia nell’abbandonare la presa. Ma non capita a tutti in questo modo, cioè sin dall’inizio. E se dovessero praticare solo coloro che fin dall’inizio sono stati toccati da questa sorta di grazia, da questa esperienza, questo restringerebbe di molto la possibilità di praticare. L’alternativa a questo è la fede, avere fiducia. Si può fare così a maggior ragione se si è all’interno di un Sangha diretto da un godo che ha fatto questo percorso e vi dà fiducia nel fatto che potete farlo anche voi senza rischio. Ma è anche vero che se si è soli, isolati, o se non si ha questo tipo di fiducia si rischia di non osare. Poi, e questo è un problema diverso, vi sono persone che sono fondamentalmente mal strutturate, che hanno una fragilità quasi di nascita legata alla loro prima infanzia e che sono rimaste fragili per tutta la vita. Per queste persone un’esperienza del genere può essere percepita come molto pericolosa e dovrebbero dunque essere seguite molto da vicino. Esistono diverse maniere di praticare zazen, si può mettere l’accento più su un punto rispetto a un altro o lo si può praticare con un ritmo diverso, ci sono diverse sistemazioni possibili. Ad esempio si può praticare intensamente durante i due mesi di un campo estivo e questo può essere positivo per un certo numero di persone e troppo per altre. Alcuni possono progredire a piccole dosi. Ecco. Esiste una gradualità ed è lì che la relazione con un godo ed il Sangha può essere di aiuto per evitare percorsi troppo pericolosi.

 

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- Vorrei sapere da lei come comportarmi quando sento salire la collera.

 

- Puoi darmi del tu come faccio io. Quando si sente crescere la collera possiamo chiederci, non solo tu, ma ognuno di noi, qual è l’origine di questa emozione. Esistono molti tipi di collera, ma le principali sono due. Esiste una collera a mio avviso giustificata di fronte all’ingiustizia. In questo caso si tratta di un’energia che occorre utilizzare, mobilizzare per cercare di risolvere questa ingiustizia, per lottare contro di essa. Si tratta di ristabilire qualcosa di più giusto e quindi anche in questo caso la collera deve essere dominata, perché se la si segue e diventa una collera classica nella quale si distrugge tutto, si fanno danni attorno a sé e allora non va più bene. A livello neurologico la collera produce molto semplicemente una scarica enorme di adrenalina. E’ energia e se si giunge a canalizzarla può essere utilizzata. Può dare avvio all’azione, è a questo che serve. Poi occorre canalizzarla, esistono persone dal temperamento collerico che canalizzano la loro collera diventando sindacalisti, manifestando per le strade, gridando, azzuffandosi con i poliziotti e questo incanala la loro collera di fronte all’ingiustizia del mondo. Non sto scherzando, la mia è una raccomandazione, affinché chi possiede un temperamento eccessivamente collerico canalizzi la propria collera verso una giusta causa riuscendo così ad utilizzarla, in modo che sia utile sfilare per le strade o militare ecc. Occorre molta energia per fare crescere una causa, per superare degli ostacoli.

C’è poi la collera a mio parere ingiusta, che è meglio abbandonare quando la si riconosce ed è la collera provocata dall’ego frustrato che non è contento, la collera del bambino che non è contento perché non ha avuto i giocattoli che voleva. In questo caso ci si deve calmare. Non è molto interessante come tipo di collera, occorre riconoscerla subito e poi dirsi: qual è questo ego che non sopporta la frustrazione? Non sono più un bambino. Cercare di lasciar passare.

 

- E quando se ne prende coscienza all’interno c’è qualcosa di pratico nell’istante ?

 

- Di pratico ? Innanzi tutto se tu prendi coscienza che in fondo si tratta di un desiderio eventualmente egoistico e dell’incapacità di accettare che le cose non vadano come vuoi, invece di spaccare tutto osservi questo e ti dici interiormente, alzando un po’ le spalle: va tutto bene, calmati. Puoi calmarti meglio espirando, questa è un’ottima tecnica, sederti e invece di agitarti espirare profondamente nel basso ventre, spingendo sugli intestini verso il basso, concentrandoti nell’hara per qualche minuto. Questo è un esercizio molto efficace, calma subito.

 

- E praticando zazen c’è o no la possibilità di esprimere questa collera ? E’ qualcosa che in quanto praticante e non sindacalista è meglio esprimere ?

 

- Dipende. Facciamo un esempio. Qualcuno mi fa andare in collera. Posso dirgli: mi fai andare in collera e lo sono per questi motivi. Questo è un buon modo per esprimere l’emozione senza prendere per il collo la persona o spaccargli la faccia. Dirlo. Magari dirlo con forza, ad esempio dire: questo è insopportabile, non sono d’accordo con quello che fai, con quello che dici, mi fai andare in collera. Esprimere la propria collera. Occorre però evitare di scoppiare in accessi di collera che provocano drammi, oppure usare parole che oltrepassano largamente quello che si voleva dire perché cerchiamo di ferire l’altro, se si tratta di collere legate a delle relazioni. Poi si rimpiange cosa si è detto perché si è andati oltre, si è costretti a scusarsi perché si sono dette cose che non si pensavano, si cercava solo di ferire. La collera crea danni enormi, bisogna fare attenzione e cercare di controllarla, chiedersi ancora se è giusta e se lo è canalizzarla per avere l’energia di risolvere la causa. Se si tratta di un problema relazionale l’altro non è necessariamente pronto a riconoscerla, anche se la nostra collera è giusta. A quel punto bisogna cercare di far capire che si è in collera e perché, evitando la violenza. Cosa ti crea un problema?

 

- C’è un po’ l’idea che i buddhisti non debbano andare in collera e in quanto praticante del Dharma c’è l’idea di non arrabbiarsi.

 

- Tu non ‘devi’. Sì, sì.

 

- Allora in effetti la collera come dicevi prima può essere giustificata. Volevo avere un tuo parere.

 

- Quando si dice che non si deve andare in collera lo si dice allo stesso modo con cui si dice che non si deve uccidere, rubare, in altre parole non si deve cedere alla collera impulsiva che porta alla violenza. La via del Buddha però consiste anche nell’illuminare, nell’imparare a conoscere se stessi, chiarendo costantemente cosa succede nella nostra condizione di spirito. E’ la pratica dell’attenzione. Nella pratica dell’attenzione uno dei quattro oggetti consiste nel diventare intimi con i nostri stati d’animo, i nostri umori, le nostre emozioni. Buddha insegnava dettagliatamente non solo a percepire se in noi c’è collera, ma anche qual è la sua origine. Insegnava anche ad apprendere come la collera può cessare. Sono ormai dieci minuti che spiego le differenti maniere. Per me, contrariamente a ciò che pensano molti buddhisti e persone che fanno un percorso spirituale, che considerano le emozioni nocive e che ritengono debbano essere eliminate, impedendo che si esprimano, io ritengo al contrario che le emozioni siano sempre un’indicazione di qualcosa di importante che accade, e che quindi occorra illuminarle per poter comprendere. Evidentemente evitando di lasciarsi trascinare da esse. E’ qui che restare zen assume tutto il suo senso, cioè evitando di lasciarsi trascinare, cosa che non significa respingere o reprimere le emozioni. Si tratta di vedere cosa ci dicono, una emozione significa sempre qualcosa, è sempre portata da un pensiero conscio o inconscio, che scatena l’emozione. Prima dell’emozione c’è sempre un pensiero, a volte siamo invasi dall’emozione e abbiamo l’impressione che sia senza pensiero, ma non è vero, piuttosto il pensiero è inconscio e non si è presa coscienza del motivo per il quale si è in collera. Si ha l’impressione che ci sia solo la collera, ma non è vero. C’è sempre una causa, un pensiero dietro la collera e dietro le altre emozioni. E’ un po’ come un kôan, la manifestazione di una realtà, di qualcosa che succede. Cosa vuol dire? Cosa succede? E’ un modo di approfondire la conoscenza. Del resto anche in occidente fino a una decina di anni addietro si consideravano spesso le emozioni come ostacoli alla conoscenza, come qualcosa che veniva a falsare la visione chiara delle cose.

Nel buddhismo si dice la stessa cosa, per vedere chiaro non bisogna lasciarsi trascinare dalle emozioni. Ma ora sono contento perché questo conferma la mia intuizione e al contrario la neurologia avanzata scopre che l’emozione è veramente fondamentale in tutti i processi di conoscenza e che l’emozione partecipa alla conoscenza invece che ostacolarla. E’ molto interessante. Non bisogna voler recidere le emozioni, esse sono la vita, ma occorre piuttosto canalizzarle perché le emozioni possono sommergerci o possono essere fondate su ragioni puramente egoistiche e dunque provocare drammi.

 

- Occorre sviluppare un interesse quale che sia l’emozione.

 

- Bisogna chiedersi : cosa succede ? Solo porsi questa domanda evita di cadere a testa bassa in ciò che l’emozione ci spingerebbe a fare se non riflettessimo un poco.

 

 

Domenica 26 marzo 2006, kusen delle 7:00

 

Durante zazen non perdete tempo ruminando i vostri pensieri, qualunque ne sia la natura. In zazen si ritorna costantemente alla nostra presenza nella postura del corpo concentrandosi sui punti importanti della postura che sono la giusta inclinazione del bacino in avanti, la colonna vertebrale ben estesa così come la nuca, spingendo il cielo con la sommità del capo, la terra con le ginocchia, rilasciando le spalle, il ventre, inspirando ed espirando con calma attraverso il naso. Si è completamente attenti al corpo, cioè al tono giusto della propria postura, né troppo teso, né troppo rilassato, né inclinato in avanti, né indietro, né di lato, ma ben centrato sull’asse verticale, in modo da essere pienamente seduti, in unità con la postura seduta. E’ in questa postura che risiede il nostro radicamento nella realtà della vita qui ed ora, si è attenti alla propria respirazione, inspirando ed espirando con calma attraverso il naso e questa attenzione alla respirazione ci riporta costantemente alla punta estrema dell’istante presente. La concentrazione sulla postura ci impedisce di fuggire altrove, la concentrazione sulla respirazione ci permette di restare presenti, senza essere trascinati dai ricordi del passato o attirati dalla attese riguardanti il futuro. Perché l’altrove, il prima e il dopo è irreale, astratto, puramente immaginario e, per di più, fonte di inquietudine, di rimpianti, di emozioni negative, di preoccupazioni, di invidie, mentre l’essere pienamente presenti qui ed ora, corpo e mente in unità, è l’occasione unica di realizzare la pienezza, attraverso il fatto di lasciar cadere ciò che ci attira altrove. L’esperienza della pienezza del qui ed ora che è al di là della mancanza e dell’eccesso consente finalmente di abbandonare la presa, di lasciar cadere, perché è in mancanza dell’unità con la vita di ogni istante che si cerca di accumulare ogni sorta di cose per compensare questa mancanza ad essere presenti, in unità. L’esperienza della pienezza della vita ad ogni istante non è un miracolo, una grazia che ci è data, ma il frutto naturale della giusta pratica di zazen. Certo si può fare questa esperienza per caso, in talune circostanze della vita, ma in zazen possiamo rinnovarla e ritornare ad essa di istante in istante. Questo dipende solo dalla nostra pratica. Se non si presta attenzione a questa vita che si manifesta ad ogni istante la si priva della sua realtà, si finisce con l’annoiarsi ovunque cercando sempre esperienze straordinarie, in questo modo anche la ricerca della Via può diventare un modo di perseguire questa illusione e questa avidità. Per questo motivo dobbiamo costantemente fare dietro front in rapporto alla nostra tendenza naturale o per meglio dire condizionata di preoccuparci di altro rispetto a ciò che è. E ritornare all’esperienza. Il Maestro Deshimaru parlava sempre di ritornare alla nostra condizione originaria e questo tema del ritorno è fondamentale nella nostra pratica. Non si tratta di andare altrove, di trascendere qualcosa verso un altrove, ma di fare ritorno a ciò che siamo in realtà e da sempre. Questa è una cosa molto concreta che si realizza nella pratica con corpo e mente in unità nelle quattro posture, nei quattro atteggiamenti della vita: stare in piedi, seduti, distesi e in marcia. Queste sono le quattro attitudini nelle quali può realizzarsi il risveglio. Quando si parla di risveglio si parla di due esperienze. Si tratta innanzi tutto di risvegliarsi ‘dalla’ propria illusione, come ci si sveglia al mattino dal sonno notturno uscendone; e si tratta anche di risvegliarsi ‘alla’ vera natura della nostra esistenza incontrandola e ritornandovi costantemente. Questi due aspetti del risveglio non sono opposti, mostrano la stessa cosa. Quando osserviamo noi stessi durante zazen percepiamo un corpo seduto, talvolta dolorante, che prova differenti sensazioni, che attraversa delle emozioni, a volte di gioia, a volte di tristezza, a volte di collera quando zazen dura troppo a lungo, di impazienza, talvolta di gratitudine; si attraversano ogni sorta di disposizioni d’animo, talvolta pienamente concentrati, altre volte mezzo addormentati, a volte vigilanti e a volte troppo vigilanti, con uno spirito che pensa troppo, agitato. Soprattutto si prende coscienza dei propri attaccamenti, dei propri preconcetti, dei pregiudizi su di sé, sugli altri e delle proprie motivazioni, talvolta generose, talvolta egoistiche. L’illusione non consiste nel provare queste sensazioni, queste emozioni, questi pensieri, ma nel creare illusioni a proposito di se stessi, credendo di essere questo, mentre in realtà zazen ci mostra che se questo sono io, io non sono questo. Questi differenti aggregati sono ciò che costituisce la nostra personalità relativa, ma sono anche del tutto impermanenti, dipendenti da ogni sorta di circostanze passate e presenti e non costituiscono un ego, qualcosa di fisso, stabile, eterno, per questo io sono questo. Ma tra questo e me, nel senso che questi pensieri non sono quelli del vicino, ma sono prodotti da me, ma io non sono questo nel senso che non sono ridotto a questo e qui entra in gioco la vera natura dell’esistenza che si gioca tra questo me che è questo e questo io che non è questo. Tutti i fenomeni che si manifestano di istante in istante, dei quali vorremmo appropriarci, con i quali abbiamo la tendenza ad identificarci sono shiki, il frutto dell’interdipendenza e l’io che vede questo si risveglia intuitivamente, chiaramente alla dimensione assoluta dell’esistenza, alla vacuità, a ku, che non è mai separata dai fenomeni che sorgono di istante in istante. E’ semplicemente l’altro versante, così come ciò che appare non è mai separato da ciò che è, non identico ma nemmeno differente. Risvegliarci dalla nostra illusione significa risvegliarci dalla nostra tendenza a ridurre la nostra esistenza, a limitarla, essendo solo questo apparire e cercando di farne qualcosa, una statua. Nasce da qui l’importanza dell’apparire nella nostra società, del look. Risvegliarsi vuol dire illuminare l’altro versante, vedendo che l’apparire è la manifestazione della vacuità, dell’interdipendenza, di engi, di ciò che fonda tutte le esistenze, al quale siamo costantemente legati. Se cerco di dire tutto ciò con le parole tutto questo non si riduce a dei concetti, ma è piuttosto l’esperienza rinnovata regolarmente della nostra vita reale in zazen. Risvegliarsi dalla propria illusione invita ad abbandonare la presa, ma risvegliarsi alla realtà consente di realizzare ciò come una non perdita. Tutto questo ha delle conseguenze molto pratiche. Ad esempio l’altro giorno al dojo di Nizza si parlava dell’angoscia che deriva dall’essere invalidi, o dall’aver avuto un incidente, del non potersi muovere, fare qualcosa, immobilizzati senza poter nemmeno parlare. E’ vero che per la maggior parte di noi questa è la situazione più terribile, perché crediamo che la nostra vita consista nel fatto di poter sempre fare qualcosa. Le persone che non possono muoversi del tutto, che non possono fare assolutamente nulla, hanno ancora la possibilità più importante data all’essere umano, quella di essere, semplicemente essere. Al di là di ogni apparire, di ogni agitazione o di ogni costruzione. Se si sperimenta questo nella pratica di zazen allora non abbiamo più bisogno di angosciarci, perché finché viviamo ci è data la possibilità di essere e possiamo sempre ritornare a questa esperienza.

 

 

Domenica 26 marzo 2006, kusen delle 11:00

 

All’inizio di questa sesshin ho ricordato i differenti aspetti della Via, ossia del percorso di vita che ognuno può prendere. Vi sono i sei aspetti, i sei cammini del samsâra tra cui quello tipicamente umano con le sue preoccupazioni umane nel quale siamo e poi vi è la via del risveglio, il cammino verso il nirvâna, nel quale siamo egualmente impegnati. Ciò che costituisce la dignità dell’essere umano è che ha la possibilità di sbagliare cammino, di allontanarsi, ma ha simultaneamente la possibilità di prendere coscienza del suo allontanamento, di risvegliarsi impegnandosi in una pratica di risveglio, semplicemente perché malgrado i molteplici condizionamenti che costituiscono la trama della nostra vita resta in noi una parte di libertà. Per la maggior parte delle persone libertà significa poter soddisfare le proprie voglie di andare qui o là, di procurarsi questo o quello, di fare o non fare questo o quello, in breve di cercare di soddisfare il loro ego. Vi è però una dimensione più profonda della libertà, un uso più nobile che consiste nello sforzo di vivere in armonia con la nostra verità profonda, con ciò che siamo in realtà. In questo senso la libertà non è fare tutto quello che vogliamo seguendo il capriccio del momento, ma agire in armonia con la verità profonda che ci mostra, che manifesta una dimensione della nostra vita che è ben oltre le nostre costruzioni mentali, le nostre idee a proposito di noi stessi, una dimensione nella quale non c’è più dualità tra sé e tutti gli esseri, o piuttosto nella quale questa dualità è superata dalla comprensione di ciò che abbiamo in comune e che ci collega gli uni agli altri, di ciò che condividiamo insieme. L’espressione di questa libertà si manifesta attraverso la pratica ed è attraverso zazen, gyoji, il samu e anche le cerimonie, la vita quotidiana che questa dimensione della vita si rivela e si attualizza. Manifestiamo ciò che armonizziamo con essa. Per questo motivo nello Zen non esiste separazione tra gyo, la pratica e butsu, il risveglio, la condizione di risvegliato, buddha. Concentrarsi su questa pratica di risveglio è quanto rende degna e nobile la nostra attività. Yuigi, attività degna, condotta nobile, cioè degna del massimo rispetto perché manifesta la più alta dimensione dell’esistenza. Per questo ho desiderato dare al dojo zen di Nizza il nome di Gyobutsu, luogo della Via ove si pratica il risveglio, dove la pratica stessa è buddha, senza separazioni e dove ritrovano la loro dignità tutti gli esseri umani che vi si impegnano, anche se talvolta continuano ad errare nei sei cammini del samsâra. Proprio perché abbiamo la libertà di smarrirci nei sei cammini esiste anche la libertà di uscirne, certo non si tratta della libertà assoluta, è una libertà condizionata, fa parte della nostra pratica prendere coscienza di ciò, praticando con queste cause e queste condizioni sforzandoci di farle agire nella direzione del risveglio, facendo anche dei nostri errori occasioni di risvegliarci, fondando ciò sulla fede profonda nel fatto che tutti i fenomeni che incontriamo nella nostra vita ci indicano la Via, la realtà che non è mai nascosta o lontana, che sta a noi riconoscere giorno dopo giorno.

 

 

 

Traduzione:   Maresa Myogen Di Noto