27-29 APRILE 2007

 

Sesshin di Ghigo di Prali

diretta dal Maestro Roland Yuno Rech

 

Dai Bai Ojo: Lo spirito stesso è Buddha

 

 

 

Venerdì 27 aprile 2007, kusen delle 7:00

 

Durante zazen non seguite i vostri pensieri. Concentratevi piuttosto sulla postura del corpo. Lo spirito vuole sempre scappare altrove, ma il corpo è sempre perfettamente qui.

Concentratevi sui punti importanti della postura. Principalmente, basculate il bacino in avanti come se voleste che l’ano non toccasse lo zafu e così le ginocchia si radicano naturalmente al suolo. Si distende bene il ventre in modo da lasciare il peso del corpo premere sullo zafu e a partire dalla vita si raddrizza la schiena. La schiena è ben verticale. Si allunga la colonna vertebrale e la nuca come se si volesse spingere il cielo con la sommità del capo. Simultaneamente si rilassano bene le spalle e si rientra il mento. Il corpo diventa così come un collegamento tra il cielo e la terra: non soltanto rivolto verso il cielo, non soltanto rivolto verso la terra. Il corpo non è troppo teso e non è troppo rilassato. In particolare, il viso è ben disteso e anche il ventre, così come le spalle. Lo sguardo non fissa alcun punto particolare e così lo sguardo diventa vasto. E poiché non ci attacchiamo a nessun oggetto della vista, nessun oggetto ci disturba e non abbiamo bisogno di chiudere gli occhi per concentrarci. E siccome non ci attacchiamo ai nostri pensieri, nessun pensiero ci disturba. Li lasciamo passare e non abbiamo bisogno di volerli eliminare.

Se a volte un pensiero vi ossessiona e se cercate di attaccarvi ad esso, notate che alla fine questo pensiero è inafferrabile, così come lo spirito che pensa. Se percepite questa realtà, allora potete naturalmente lasciar passare i pensieri perchè in ogni caso essi passano. E possiamo così armonizzarci con l’impermanenza, realizzando uno spirito fluido, uno spirito che non ristagna su nulla. Questo spirito è lo spirito risvegliato, che funziona in armonia con la realtà così com’è. Lo spirito che non crea separazione, che non si attacca alle parole o ai concetti, che ne percepisce i limiti. Lo spirito stesso non può afferrare se stesso. Così resta il vero spirito, al di là di ogni pensiero, che non può essere misurato, che non può essere rinchiuso e che è chiamato spesso lo spirito di buddha, ma che è al di là di Buddha, al di là di ogni nozione e sempre presente.

Non lasciate che questo spirito sia intralciato dai pensieri. Ritornate al corpo e ritornate alla respirazione. Inspirate ed espirate profondamente attraverso il naso e per quanto possibile, andate fino al fondo di ogni espirazione e non solo durante zazen. Durante la sesshin e durante la vita quotidiana, ritornate il più spesso possibile alla concentrazione sul corpo e alla respirazione.

E’ il modo migliore per liberare il proprio spirito dall’agitazione mentale e per diventare intimi con il vero spirito. E’il senso stesso della parola sesshin, della nostra pratica.

 

 

Venerdì 27 aprile 2007, kusen delle 11:00

 

Durante zazen abbandoniamo le preoccupazioni abituali, le attività quotidiane. Ci si concentra sulla pratica di zazen e si diventa intimi con il proprio spirito.

Ma che cos’è questo spirito? Questa mattina ho detto che è inafferrabile, cioè che non è qualcosa di oggettivo. Quello che si può osservare, è il funzionamento dello spirito.

In Giappone spirito si dice shin, shin di sesshin. Questa parola ha molti significati, che sono altrettante funzioni e modi di funzionare dello spirito, con i quali diventiamo intimi nella pratica di zazen.

Quello che si percepisce, in primo luogo, è il funzionamento del mentale ordinario. Lo spirito che percepisce il sorgere dei pensieri, che se ne appropria, che si attacca a ciò che pensa essere giusto o buono, che rifiuta ciò che non ama, ciò che trova ingiusto o non buono e quindi che misura, che compara continuamente. Questo funzionamento del mentale è indispensabile nella vita quotidiana per orientarsi, per fare delle scelte. E’ questo stesso funzionamento dello spirito che ci ha incitati a venire a fare la sesshin, perché, ad un certo punto, è questo spirito che ha discriminato tra fare la sesshin o passare un weekend di vacanza, per esempio. E che ha scelto di venire a fare la sesshin . Spesso critichiamo questa attitudine del mentale, ma di fatto lo spirito che discrimina è il punto di partenza dello spirito del risveglio, lo spirito che osserva la causalità, che cerca di concentrarsi sulle buone cause che producono dei buoni effetti.

Questo mentale è spesso minato dalle emozioni, legate al passato, legate all’attaccamento a una certa idea che ci si fa di se stessi, dalle emozioni che ci fanno essere egoisti. Così, spesso, questo funzionamento mentale dello spirito è fonte di illusione e questo possiamo veramente osservarlo durante zazen, poiché in zazen non dobbiamo fare delle scelte o prendere delle decisioni. Abbiamo tutto il tempo di osservare. Ciò vuol dire che c’è come un altro funzionamento dello spirito che si mette a funzionare e che osserva il funzionamento ordinario, condizionato. Ciò è reso possibile quando siamo centrati sulla postura e sulla respirazione, quindi quando non ci lasciamo portare via dai pensieri. E’ un po’ come quando siamo trascinati dalla corrente dell’acqua e ad un tratto usciamo dal fiume e ci sediamo sul prato. Vediamo la corrente che scorre.

Un’altra immagine per far sentire questo è quella dello specchio. Quando lo spirito non si attacca a nulla, riflette tutte le cose come uno specchio. Ci sono specchi più o meno chiari, più o meno deformanti, ma nessuno specchio conserva le immagini, altrimenti non sarebbe uno specchio. La coscienza hishiryo in zazen è il funzionamento dello spirito come uno specchio. Hi vuol dire ‘no’ e shiryo vuol dire ‘il mentale che misura’. Quindi hishiryo è essere al di là di questo mentale che misura. Vederlo eventualmente funzionare ma non attaccarsi ad esso.

E’ anche un pò come quando siamo in una valle e si sale su una montagna. Dalla cima della montagna le attività umane che si svolgono nella valle sono viste con un occhio del tutto differente. Fare una sesshin è veramente penetrare una montagna, guardare la propria vita dal punto di vista della montagna, cioè senza gli attaccamenti umani ordinari, ma osservando questi attaccamenti dal punto di vista della montagna, cioè dal punto di vista di Buddha. Buddha non si fa delle idee a proposito di Buddha, non pensa di avere ottenuto il risveglio ma si accontenta di rischiarare le sue illusioni, di vederne l’autentica natura, cioè senza niente di fisso, senza sostanza, non esistente che attraverso delle relazioni sottili di interdipendenza con tutti gli altri fenomeni della nostra vita. E al di là della nostra vita, certamente della vita dell’ambiente, della società, della natura e alla fine con l’universo tutto intero.

Osservare ciò è l’altro significato dello spirito, non lo spirito fonte di errore e di illusioni, come lo è spesso il mentale ordinario, ma lo spirito risvegliato che chiamiamo lo spirito di buddha che percepisce intuitivamente la realtà così com’è. In particolare, che percepisce la vacuità di tutte le nostre costruzioni mentali e che quindi si armonizza con queste, senza attaccarsi ad alcun pensiero, ritornando semplicemente al qui e ora della pratica con il corpo, con la respirazione, in relazione con il sangha che pratica nel dojo. Questo spirito non discrimina. Esso ingloba facilmente ogni cosa poiché ne vede l’autentica natura. Leggero come le nuvole.

 

 

Venerdì 27 aprile 2007, mondô

 

- Ho acquistato il Sutra del Loto, da circa sei mesi. Quando tu l’hai spiegato in un atelier, ho provato a leggerlo. L’ho rapidamente abbandonato. Quindi la mia domanda è: con quale spirito bisogna che legga questo sutra?

 

- Con uno spirito aperto. E’ vero che con la nostra mentalità, con il nostro spirito ordinario è difficile leggerlo. Non perché ci sono dei concetti complicati ma perché c’è tutta una messa in scena cosmica talmente meravigliosa ma quasi soprannaturale che sciocca un po’ il nostro spirito razionale, terra terra, direi. Ma giustamente, bisogna leggerlo quasi come una poesia, come qualcosa che apre completamente a una prospettiva molto vasta. E soprattutto bisogna anche comprendere le sue parabole. E’ un libro che parla molto attraverso immagini, parabole. Ovviamente bisogna leggerlo un po’ “in diagonale”, perché è un po’ lungo: è in stile indiano, ci sono ripetizioni, enumerazioni e quindi viene voglia di leggerlo un po’ rapidamente. Questo è possibile. Ma il senso delle parabole è molto profondo. E come tutti i sutra, bisogna leggerlo con lo spirito di zazen, cioè chiedendosi che cosa vuol dire in rapporto alla nostra pratica di zazen: come la illumina, come la mia pratica illumina il sutra. E’ sempre così che bisogna fare, è un dialogo tra l’esperienza della pratica e l’insegnamento. E’ il Maestro Eno che diceva: “Quando siamo nell’illusione, siamo illuminati dal sutra. Quando siamo risvegliati, illuminiamo il sutra”. Quindi non bisogna esitare a lasciarsi illuminare dal sutra, cioè lasciare che il sutra disturbi un po’ il nostro senso comune, che faccia saltare le nostre categorie mentali ordinarie.

 

- E’ comunque un sutra un po’ speciale perché gli altri sutra che ho letto non mi hanno lasciato questa impressione.

 

- Sì, dipende da quali sutra leggi. Ma i sutra del Mahâyâna hanno spesso questa atmosfera. Se leggi i sutra della Prajnâ Pâramitâ, ce ne sono alcuni che sono estremamente corti come l’Hannya Shingyo, dove non c’è alcuna scenografia, si va direttamente all’essenziale. Ma altri sutra della Prajnâ Pâramitâ sono più sviluppati e c’è questa messa in scena cosmica. Io credo che ciò sia bene perché apre lo spirito. E alla fine corrisponde molto di più alla realtà come la scopre ora l’astrofisica che non la maggior parte dei testi della nostra propria tradizione occidentale. Si entra veramente in una prospettiva di un universo infinito, di miliardi di mondi, di miliardi di buddha, ecc. E’ completamente realista a mio avviso, alla fine. In ogni caso è bene lasciare sconvolgere i nostri limiti, le nostre categorie.

 

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- Da un po’ di tempo, leggendo, mi sono imbattuta nell’impermanenza.

 

- Vuoi dire in un modo un po’ conflittuale, allora. Hai incontrato una difficoltà?

 

- Sì, non sarei qui se l’avessi risolta.

 

- Qual è la difficoltà?

 

- La difficoltà è che non comprendo, non a livello intellettivo ma a livello interiore, che cos’è il vuoto dell’impermanenza.

 

- Il vuoto? Ah, non è il nulla, non è che nulla esiste ma vuol dire che a causa dell’impermanenza nulla esiste in modo stabile. Tutto si trasforma. Quindi ogni cosa, tutti i fenomeni, tutti gli esseri sono vuoti di sostanza, cioè vuoti di qualcosa che non esiste altrove, se non nella nostra immaginazione. Quindi alla fine non sono vuoti, sono così come sono. Immo, così come sono, solo per spazzar via un’illusione, l’illusione che c’è in noi qualcosa di permanente, di fisso, di stabile, che non cambia mai. E anche all’esterno. Quindi ci si attacca a quest’idea ed evidentemente quando incontriamo l’impermanenza ci sconvolge perché non siamo preparati ad accettare. Ma se al contrario consideriamo l’impermanenza come la vita stessa, essa è la vita, l’impermanenza non arriva sempre per togliere qualcosa. Pensiamo sempre all’impermanenza come a una perdita. Per esempio, se l’impermanenza non esistesse, allora, se fossimo malati, saremmo malati in modo permanente. Oppure, se fossimo nell’illusione, saremmo in modo permanente condannati a essere nell’illusione, non potremmo mai risvegliarci. Se ci risvegliamo è perché la nostra illusione è impermanente. Allora, viva l’impermanenza! E’ la libertà, è il movimento.

 

- E’ il movimento ..

 

- Sì, il movimento della vita.

 

- La non stabilità, la non staticità.

 

- Ecco, niente resta.

 

- Quindi la non divisione? Non dualità.

 

- Sì, si potrebbe dire così. Ma è un po’ qualcos’altro. La dualità è creata dal nostro spirito, dal mentale. Per esempio, si crea una dualità tra permanente e impermanente. La parola esiste in opposizione ad altre parole, ad altri concetti. E’ anche per questo che si dice che le parole sono vuote. E’ un altro aspetto della vacuità. Sono vuote perché non esistono di per se stesse. Una parola non ha senso che in rapporto al resto del vocabolario. Allora, in questo senso la vacuità è l’interdipendenza, cioè il fatto che nulla esiste di per se stesso. L’alto esiste in rapporto al basso, il giorno in rapporto alla notte, io esisto in rapporto a te, qui e ora, davanti a te, la vita esiste in rapporto alla morte, il satori in rapporto all’illusione. Tutti questi poli, queste dualità esistono perché il nostro mentale li costruisce. Si cita un aspetto della realtà, opponendolo al resto. Sono costruzioni mentali che non esistono che di per se stesse. Se comprendiamo ciò, veramente, profondamente, questo ci permette di non farci attaccare ai concetti. Ed è questo precisamente che Buddha raccomandava. Il Buddha raccomandava di distaccarci dalle nostre fabbricazioni mentali, che sono legate al fatto che a causa del nostro mentale, noi funzioniamo nella dualità e di colpo ci impedisce di percepire un altro aspetto fondamentale della realtà, che è che noi non esistiamo che con gli altri, in relazione con gli altri e con tutti gli esseri.

Cosa c’è, fai “no” con la testa?

 

- Io non la sento assolutamente questa relazione con gli altri e con l’universo. Non mi sento in relazione.

 

- Ma tu sei in relazione, anche se non lo senti. Prova a smettere di respirare per 3 o 4 minuti ..

 

- Eh, è un po’ difficile ..

 

- E’ completamente impossibile separarci dal nostro ambiente. In nessun momento possiamo esistere separatamente. Ma semplicemente, siamo spesso talmente obnubilati, offuscati dal nostro ego che si è come te, non si percepisce più l’interdipendenza, non si percepisce più la relazione con gli altri. Si è come rinchiusi e la pratica di zazen è proprio qui per aprire il nostro spirito a questa realtà ultima e profonda della nostra esistenza in interdipendenza con tutti gli esseri. E’ ciò che permette di abbandonare poi l’attaccamento egoista che ci fa spesso odiare o essere avidi. E’ ciò che permette di sviluppare uno spirito di solidarietà, di compassione, di benevolenza nei confronti di tutti gli esseri. Non perché ciò è bene e perché Buddha ha detto: “Voi dovete avere della compassione per gli altri”. Non è un comandamento. Ma semplicemente perché si sviluppa questa capacità di sentirsi collegati agli altri, simili agli altri. E’ ciò che chiamiamo empatia e questa si coltiva, si sviluppa. Si sviluppa imparando a conoscere se stessi profondamente. E’ un aspetto fondamentale di zazen.

Da quanto tempo tu pratichi?

 

- Tre anni.

 

- Tre anni. Quindi?

 

- Grazie.

 

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- E’ da poco tempo che pratico però sento una forte spinta verso la pratica che secondo me viene dallo spirito. Però a volte ho paura che possa essere dettata anche dalla mente.

 

- Sì sì, certo.

 

- Volevo solo sapere se c’è un modo per riuscire a capire quanto è una cosa dello spirito e quando della mente.

 

- In generale, è sempre il mentale, all’inizio. Ma è il mentale quando esso è separato dallo spirito. Per essere più semplice e per non fare dualismi tra il mentale e lo spirito, penso che se non si è collegati al senso profondo della nostra vita, siamo semplicemente infelici, insoddisfatti. E quindi, ad un tratto, il mentale, cioè lo spirito delle selezioni, delle scelte, cerca ciò che è buono per lui, si mette a cercare. Cosa c’è che non va in questo? E in questo senso il mentale, si può dire, è all’origine stessa dello spirito del risveglio. E’ la presa di coscienza della sofferenza, del malessere che c’è qualcosa che nella vita non va. E’ il mentale che prende coscienza di ciò. Ma se approfondiamo attraverso la pratica, se cominciamo a praticare, ci si accorge che ciò che non va è che siamo separati dal nostro autentico spirito, dallo spirito che è Buddha. E io credo che il mentale ci mette sulla pista, ci mette sulla Via, ma ad un certo punto esso deve farsi da parte. Ci ha portato per un certo momento, ad esempio fino a qui, fino a quell’asta all’ingresso del dojo e a partire dal momento in cui entriamo nella pratica, questo è sufficiente, non abbiamo più bisogno del mentale. Bisogna concentrarsi semplicemente sulla postura, sulla respirazione, lasciar cadere ogni attività mentale volontaria. E così lasciare che lo spirito si manifesti, l’autentico spirito di buddha. Che è semplicemente lo spirito che è al di là di tutte le categorie mentali, che non si attacca alle nostre fabbricazioni mentali. E in questo senso non è separato dal mentale, è l’altro versante. Come la dualità, la non-dualità, non sono separate.

 

 

Sabato 28 aprile 2007, kusen delle 7:00

 

Quando si riceve l’odinazione di bodhisattvâ o di monaco o monaca, si fa voto di seguire i Tre Tesori: il Buddha, il Dharma e il Sangha.

Per quanto riguarda il Buddha, certamente si pensa a Shakyamuni che ha avuto il risveglio sotto l’albero della Bodhi. Ma come seguire il Buddha qui ed ora? Il Buddha ha vissuto 25 secoli fa in India. Come seguire il Buddha ora, qui? Questa domanda è la domanda essenziale che i monaci hanno in continuazione fatto ai loro maestri.

Per esempio, Dai Bai Ojo domandò un giorno al Maestro Basso: “Che cos’è Buddha?” Ed egli rispose: “Lo spirito stesso è Buddha”. Non c’è bisogno di pensare a Shakyamuni. Divenite intimi con il vostro proprio spirito nella pratica di zazen, così pure in ogni istante della vita quotidiana. E’ il senso della sesshin.

Basso stesso aveva studiato con il Maestro Nangaku e praticava in continuazione zazen. Un giorno Nangaku gli domandò: “Che cosa cerchi di realizzare facendo zazen?”. Basso gli rispose: “Cerco di diventare Buddha, cioè risvegliato”. Allora Nangaku prese una tegola e si mise a lucidarla. Basso gli chiese: “Che cosa fate?”. “Voglio farne uno specchio”. Bassò chiese: “Com’è possibile che una tegola diventi uno specchio lucidandola?”. Nangaku gli rispose: “Come si può diventare Buddha facendo zazen?”.

Allora Basso continuò chiedendogli: “Ma allora, cosa devo fare?”. Nangaku gli disse: “E’ come un carro tirato da un bue. Quando il carro non si muove più, che cosa è meglio? Frustare il carro o frustare il bue?”. Basso rimase silenzioso e Nangaku gli disse: “Tu pratichi zazen e cerchi di diventare Buddha, stando seduto. Tu vuoi imparare come praticare lo zen seduto, lo zazen. Devi sapere che lo zen non è limitato alla postura seduta o allungata. Tu vuoi diventare Buddha stando seduto. Devi sapere che Buddha non ha una forma fissa. Così devi abbandonare ogni discriminazione e vivere il dharma del non-attaccamento. Perchè se vuoi diventare Buddha sedendoti, è uccidere Buddha. Se sei attaccato alla forma della postura seduta, non potrai mai realizzare Buddha, mai realizzare il risveglio”.

Le spiegazioni di Nangaku sono molto preziose e il Maestro Dôgen stesso diceva nel Fukazazengi che lo zazen non è limitato alla postura seduta. Quando siamo seduti in zazen siamo completatemente assorbiti nella postura seduta. Allora non ci sono più differenze tra essere seduto, in piedi o coricato, poiché non si pensa più al prima o al dopo, non si oppone più seduto o in piedi. Lo spirito che si attacca alle forme fisse è abbandonato. Allora possiamo risvegliarci stando seduti ma anche stando in piedi, camminando, mangiando la guen maï, facendo sanpaï, realizzando uno spirito che non si sofferma su alcuna posizione, che non si attacca ad alcuna forma. Non attaccarsi ad alcuna forma vuol dire penetrare ogni forma profondamente. Cioè non pensare alla forma ma divenire la forma completamente.

Allora ogni forma è una buona forma, ogni luogo è un buon luogo, ogni giorno è un buon giorno. Ovunque si manifesta lo spirito di buddha, lo spirito al di là di tutte le discriminazioni, lo spirito che percepisce la realtà al di là di ogni separazione, lo spirito che percepisce ciò che condividiamo con tutti gli esseri.

 

 

Sabato 28 aprile 2007, kusen delle 11:00

 

Ascoltando il Maestro che gli rispodeva “Lo spirito stesso è Buddha”, Dai Bai Ojo si è risvegliato. Si è risvegliato al suo proprio spirito che è Buddha, cioè ha abbandonato i suoi dubbi a questo proposito ed ha realizzato una fede profonda ed una grande fiducia e non ebbe più bisogno di cercare il Buddha altrove.

Quando si fa una sesshin e si passano tre giorni rivolti verso il muro, questo modo di praticare è un’affermazione di questa fiducia. Si smette di cercare qualsiasi cosa all’esterno e ci si accontenta di volgere il proprio sguardo all’interno. E anche volgendo il proprio sguardo all’interno, non si afferra alcun Buddha, alcun ego, alcuno spirito. Ci si accontenta di lasciare la presa sul nostro spirito che crea delle separazioni.

Così, Dai Bai Ojo era partito per la montagna dove ha continuato a praticare lo zazen in un eremitaggio. Aveva qualche discepolo a cui insegnava sempre che lo spirito stesso è Buddha. Un giorno, un condiscepolo suo che era rimasto con il Maestro Basso, venne a trovarlo e gli domandò: “Perchè resti in questa montagna”. Ojo gli rispose: “Un giorno ho chiesto al Maestro Basso che cos’è Buddha. E lui mi rispose che lo spirito stesso è Buddha e quel giorno mi sono risvegliato e ho continuato questa pratica nella montagna”.

Allora il monaco che era venuto a trovarlo gli disse: “Sì ma adesso l’insegamento del Maestro Basso è cambiato. Egli insegna: Nessuno spirito, nessun Buddha. Hi shin, hi butsu, che vuol anche dire al di là dello spirito, al di là di Buddha”.

Allora Ojo gli rispose: “Forse Basso insegna così adesso, ma io ho continuato a praticare e ad insegnare: lo spirito stesso è Buddha”.

Allora il monaco ritornò al monastero del Maestro Basso e gli raccontò questo dialogo. Basso ne fu molto felice. Allora gli disse: “La prugna, Dai Bai - Dai Bai vuol dire la grande prugna, era il nome di Ojo - la prugna è veramente matura”.

“Com’è possibile che il Maestro Basso possa insegnare una cosa ed il suo contrario, o almeno ciò che sembrava essere il contrario?” gli chiese un giorno qualcuno. “Perché insegnate che lo spirito stesso è Buddha?“. Ed egli rispose: “E’ per interrompere il pianto del neonato. E quando il neonato smette di piangere, allora io insegno: nessuno spirito, nessun Buddha”.

Le parole di un insegnamento sono come delle medicine, dei rimedi. Lo spirito stesso è Buddha è il rimedio che si dà a coloro che si credono malati mentre non lo sono. Tutti sono in buona salute. Tutti gli esseri sono la natura del Buddha, ognuno di noi. Ma ci attacchiamo ad ogni tipo di illusione e perdiamo di vista questa realtà fondamentale e diventiamo come dei neonati che piangono per un sì o per un no. Allora, maestri come Basso insegnano: “Il vostro spirito stesso è Buddha”. E alcuni discepoli, ascoltando queste parole, vi si attaccano. Si attaccano al rimedio stesso come persone che sono guarite ma non riescono a smettere di prendere le medicine. Allora in quel momento bisogna insegnare: nessuno spirito, nessun Buddha. Nessun attaccamento al rimedio.

Alla fine i due insegnamenti mirano alla stessa cosa, hanno lo stesso scopo: liberare lo spirito, che in realtà non è mai stato incatenato, tranne che dalle nostre illusioni. E’ il senso della pratica di zazen. Noi pratichiamo in quanto Buddha. La pratica è ciò che ci riconcilia con la nostra autentica natura. Essa non produce nulla. Il risveglio, il Buddha, non sono che una fabbricazione dello spirito. E’ semplicemente riconoscere la nostra realtà, che esiste fin da prima della nostra nascita. Ma non credete a ciò. Divenite intimi con questà realtà, nella vostra pratica.

A questo proposito, il Maestro Mumon aveva scritto un poema in cui diceva: “Una bella giornata con il cielo blu. Non guardate stupidamente qui o là. Se voi continuate a chiedere cos’è il Buddha, è come dichiarare la vostra innocenza mentre tenete in mano gli oggetti rubati”.

Quando si diventa intimi con il proprio spirito, non c’è nulla di nascosto. Si diventa come il vasto cielo senza nuvole. Non c’è più bisogno di cercare nulla altrove. Non c’è più bisogno di fare domande a proposito di Buddha. Ed è altrettanto assurdo quanto dichiararvi innocenti quando avete in mano gli oggetti rubati. In altre parole, smettete di negare l’evidenza.

 

 

Sabato 28 aprile 2007, kusen delle 16:30

 

Durante la sesshin si volge l’attenzione verso l’interno. Si sposta la mente da tutti gli oggetti esterni a cui siamo attaccati abitualmente e si mette tutta l’attenzione verso l’interno, al fine di divenire intimi con il vero spirito, lo spirito che è Buddha. È molto importante avere fiducia in questo. Il nostro spirito stesso è Buddha. Ciò vuol dire che non c’è un Buddha da cercare all’esterno. Buddha non è qualcosa che si possa cogliere.

Ma che cos’è questo spirito che è esso stesso Buddha? C’è un’espressione molto celebre nello Zen: “Sokushin ze butsu”. Sokushin, lo spirito stesso. Ze, è. Butsu, Buddha.

È sia la chiave della nostra pratica, ma può anche divenire una fonte di errore. Allora bisogna chiarire un po’ tutto ciò.

Se pensassimo che il nostro spirito così com’è sia già Buddha, poteremmo concludere che non abbiamo bisogno di praticare. Ma evidentemente sarebbe un grosso errore.

Spesso si pensa che il nostro spirito, che è Buddha, sia un’anima eterna che abita in questo corpo. E che quando il corpo muore, questo spirito cambia di corpo, ma resta esso stesso senza cambiare, immutato in eterno.

Questo vuol dire ritornare a fare dello spirito una specie di sostanza, che resta sempre immutevole. Ma questo spirito non c’è. Non possiamo farne l’esperienza. Forse possiamo crederci. Ma lo Zen non è un fatto di credenza, ma sperimentare da noi stessi.

Allora, come sperimentare questo spirito che è esso stesso Buddha? É il punto essenziale della pratica di zazen. Senza pratica, senza spirito di risveglio, senza ricercare la Via, il nostro spirito ordinario non è affatto Buddha. Ma, in genere, è uno spirito prigioniero delle discriminazioni, degli attaccamenti. Perché lo spirito funzioni come Buddha, bisogna impegnarsi totalmente nella pratica di zazen. Vedere chiaramente che tutti i fenomeni che sorgono sono senza sostanza. Rischiarare questo punto, non dubitarne più. Non dubitarne più vuol dire smettere di attaccarsi ad esso, smettere di attaccarsi alle nostre costruzioni mentali. Il nostro spirito diventa Buddha, cioè si armonizza con la sua vera natura nel momento stesso in cui lascia cadere un attaccamento. Diventa un momento di risveglio e di liberazione. Un momento in cui funzioniamo come Shakyamuni Buddha.

Quando si sperimenta ciò, si può provare gioia. Lo spirito diventa leggero. E anche se poi siamo ripresi da un attaccamento, si può conservare questa fiducia fondamentale nella nostra capacità di andare al di là e di armonizzarci con l’ordine cosmico. Perché questo non resti una semplice possibilità, dobbiamo costantemente rinnovare questa esperienza. E, in questo senso, ogni istante della vita è un’opportunità per spogliarci di tutto ciò che ci ingombra e di cui noi crediamo di avere assolutamente bisogno.

Praticare zazen è semplicemente sperimentare il fatto che non abbiamo bisogno di troppe cose. Fondamentalmente abbiamo bisogno soltanto di essere perfettamente qui e ora. Di accogliere la vita così come ci si presenta in ogni istante, con uno spirito vasto, largo. Al di là della scelta e del rifiuto.

Così, se durante la sesshin a volte incontrate delle difficoltà, non considerate queste difficoltà come un ostacolo, ma come una buona occasione. Una buona occasione per lasciare la presa.

Per esempio, se avete male alle ginocchia. Il fatto di avere male alle ginocchia non è affatto un ostacolo alla pratica di zazen. E’ proprio l’occasione di liberare il nostro spirito dal volere altra cosa da quella che c’è adesso. Se si accetta il male alle ginocchia come semplicemente male alle ginocchia, lasciando cadere tutto il cinema mentale che ci facciamo a proposito di questo, allora il dolore diminuisce e soprattutto si arriva ad attraversarlo senza muoversi, senza lasciarci portare via, senza lasciarci distruggere.

Quando realizziamo questo, è l’occasione per avere fiducia allo stesso tempo in zazen e in noi stessi. In noi stessi guidati da zazen, trasformati da zazen, nello spirito che è Buddha.

 

 

Sabato 28 aprile 2007, mondô

 

- La mia domanda riguarda la pratica dell’uso del kyosaku. Vorrei sapere se, oltre ad una corretta esecuzione tecnica, bisogna aggiungere altro al gesto, nel darlo.

 

- Io credo che quando lo si dà, se si ha l’abitudine a darlo, non si pensa alla tecnica. Allora in quel momento si è solamente in empatia con la persona alla quale lo si dà. Quindi non è tecnica, ma compassione per sentire se la persona ha bisogno di essere stimolata oppure calmata. Questo è un punto importante. Non bisogna mai darlo con brutalità ma sempre con benevolenza. Allora lo spirito è di aiutare la persona a praticare nel modo giusto.

In seguito, questo potrebbe diventare più sottile se si desse il kyosaku senza che la persona lo chieda, ma normalmente noi non lo facciamo. Nella tradizione Zen, nessuno chiede il kyosaku. E’ il responsabile che lo dà. In questo caso è richiesto, oltre alla tecnica, molta intuizione per capire a chi darlo, quando darlo. Questo richiede di essere ancora di più in empatia con la persona, sentire l’altro.

Tu dai il kyosaku nel gruppo in cui fai zazen?

 

- Questa mattina è stata la prima volta in assoluto.

 

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- Puoi parlare dei tre grandi precetti perché ieri nell’atelier ne abbiamo parlato un po’ ma la tradizione è differente da un posto all’altro. Smettere di fare del male, fare del bene, fare il bene a tutti gli esseri. Il secondo e il terzo sembrano simili. La domanda che ci si faceva era: fare del bene, d’accordo, ma perché è necessario aggiungere il terzo precetto, fare il bene a tutti gli esseri, quando è sottinteso?

 

- Perché questi tre precetti puri sono i precetti del bodhisattvâ. Si può quindi fare il bene semplicemente concentrandosi sulla pratica per ottenere dei meriti per se stessi. Questo è il bene per se stessi. E poiché sono dei voti di bodhisattvâ, è per questo che si precisa: fare il bene. Ma non solo per se stessi, non solo per i meriti che si otterranno grazie al bene che si pratica. Non solo fare il bene agli altri, ma anche i benefici della nostra pratica, che otteniamo per noi stessi, li dedichiamo agli altri. E’ per questo che li si precisa.

Poi, evidentemente, la questione sottile è di comprendere cosa è bene, cosa è male. Bisogna essere un buddha onnisciente per comprendere veramente questo. Perché, come ognuno sa, a volte il bene si trasforma in male, a volte il male si trasforma in bene. Quindi è difficile sapere, alla fine, che cosa è bene, che cosa è male. E’ la ragione per la quale a guidarci ci sono i precetti.

In ogni caso, per un bodhisattvâ, già il fatto di non fare il male, vuol dire evitare di creare della sofferenza a se stessi e agli altri. Nel buddhismo il bene e il male sono in rapporto con la sofferenza e con il risveglio, la liberazione dalla sofferenza. Sono i criteri del bene e del male. Per esempio, non è una legge fissa, non è che il Buddha ha dato i dieci comandamenti, come nella Bibbia e che quindi seguire i comandamenti è bene, non seguirli è male. Non è questo. I precetti non sono dei comandamenti, sono piuttosto dei consigli, dei consigli del Buddha e non bisogna seguirli solo perché il Buddha ha detto che bisogna fare così e quindi si fa così. Non è per niente così. Semplicemente, si ha fiducia nella saggezza di Buddha, si ha fiducia nella sua compassione, ma dobbiamo comprendere i precetti da noi stessi.

Quindi, in un primo tempo evidentemente li si seguirà in un modo quasi automatico, ma è importante riflettere sui precetti nella propria vita, in particolare quando non li si segue! Per capire meglio il senso dei precetti bisogna comprendere cosa succede quando li trasgrediamo. Vedere a quel punto le conseguenze nefaste per gli altri, per noi, in modo da essere risvegliati noi stessi alla verità, alla comprensione dei precetti e non semplicemente seguirli per obbedienza a Buddha.

Il senso finale dei precetti è che se viviamo in modo armonioso in rapporto alla nostra pratica di zazen, se è veramente zazen che ci guida, lo spirito dell’autentico zazen, allora i precetti sono realizzati naturalmente. E quindi non abbiamo più bisogno dei precetti. Il senso della nostra pratica è di approfondire la pratica fino al punto in cui nessun male può più essere commesso. Nessun male è commesso. E’ importante comprendere questo e di ricordarselo. E praticare zazen fino al punto in cui, naturalmente, il bene è realizzato. Senza dirsi: “Ah, devo fare il bene”, ma agiamo spontaneamente e il modo di agire è bene. E, nell’attesa che ciò diventi così, bisogna ricordarsi i precetti.

Ecco, bisogna comprendere che i precetti sono l’espressione del risveglio, l’attualizzazione del risveglio e che alla fine c’è una totale unità tra i precetti e zazen.

E inoltre, l’altro aspetto è che se si vive in armonia con i precetti, è più facile fare zazen. Al contrario, se non seguiamo i precetti, il karma diventa complicato e diventa difficile anche praticare. Del resto è un buon criterio questo: che cosa favorisce la pratica di zazen? Che cosa diventa un ostacolo a zazen? Tutte questo sono occasioni per osservare, per imparare anche a conoscersi meglio. Nel buddhismo, nel Dharma del Buddha, è molto importante comprendere, non solo seguire qualcosa - seguire i precetti perché si è fatto il voto di seguirli - ma comprendere veramente.

 

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- Sono contenta di essere qui.

 

- Si, sì, lo vedo.

 

- Durante gli ultimi anni ho fatto l’esperienza del lavoro. Lavoro molto, lavoro ancora e credo che se non facciamo le cose a metà, un lavoro, una vita lavorativa, una vita familiare richiedono corpo e anima, richiedono di dedicarsi corpo e anima. Anche la pratica di zazen, se non facciamo le cose a metà, richiede corpo e anima. Io non ho che un corpo e un’anima e conciliare le due cose, senza arrivare a dire che è impossibile, per me è molto difficile. Quindi, ad un certo punto mi chiedo se è incompatibile o se bisogna fare delle scelte dure e difficili.

 

- Allora, quando tu dici “bisogna darsi corpo e anima”, cioè darsi completamente alla pratica, ma anche al lavoro, anche alla famiglia, eventualmente, tu non hai famiglia per ora ..

 

- Ho un compagno che non pratica.

 

- Che vuole il tuo corpo e la tua anima!

 

- Fortunatamente!

 

- Totalmente!

 

- No, non totalmente!

 

- Volevo semplicemente dirti che c’è un tempo per ogni cosa. Puoi donarti corpo e anima nella tua relazione quando sei con lui, al tuo lavoro quando sei al lavoro e a zazen quando sei a zazen. Questa è la prima risposta. Ho detto che c’è un tempo per ogni cosa, ma bisogna che ci sia un tempo per ogni cosa. Se c’è un aspetto della vita che prende tutto il tempo, allora non funziona più. Se per esempio il tuo lavoro ti assorbe totalmente e tu non hai più il tempo per il tuo compagno, per zazen, allora non va bene. E’ la stessa cosa per ognuno degli altri aspetti della tua vita - tu ne hai menzionati tre - e cioè trovare un equilibrio che convenga alla tua vita di adesso. A volte effettivamente bisogna sacrificare qualcosa. Per esempio, se il tuo lavora ti obbliga a lavorare tutto il tempo e non hai più il tempo di andare al dojo a fare zazen, non va bene. Bisogna discutere con il tuo datore di lavoro e dirgli che non va bene continuare così. Bisogna che lui cambi di mentalità, che accetti. Altrimenti si diventa come dei drogati del lavoro. Esistono. Ci sono persone che sono angosciate, ansiose e il lavoro è una droga per calmarsi. Non bisogna seguire ciò. Allora, effettivamente, c’è forse una scelta da fare.

Tutti nello Zen - la maggior parte delle persone qui lavorano - fanno zazen, vivono in una famiglia, trovano un equilibrio. Il punto è che l’equilibrio può variare a seconda dei periodi, nel tempo. Ma bisogna anche ricordarsi che se si dà sufficientemente tempo a zazen, in seguito, quando facciamo qualcos’altro, queste altre cose che facciamo possono essere fatte con lo stesso spirito con cui facciamo zazen. Non è una frattura. Non c’è la Via, il dojo che è una cosa separata dal resto. Tutto può divenire la Via, a condizione di lasciare un posto sufficiente a zazen. Se zazen è una mezz’ora a settimana, non va bene.

 

- Ma non deve nemmeno diventare una fonte di stress perché si ripercuote proprio sul resto.

 

- Certamente, ma tocca a te decidere qual è il punto di equilibrio per te, ora. Devi cercare di organizzare la tua vita. Non conosco la tua situazione. Per esempio, io ho vissuto questo nel lavoro e avevo deciso che non avevo paura di perdere il mio lavoro. Quindi ho continuato a fare zazen, anche se arrivavo un’ora dopo tutti gli altri al lavoro, anche se avevo un ruolo di responsabile - non dovevo arrivare tardi. E non ho perso il lavoro. Il lavoro che facevo lo facevo molto bene, concentrato mentre lo facevo ed ero apprezzato dal mio capo e lui voleva tenermi. Anche se i miei orari di lavoro non erano giusti per lui, alla fine ha riflettuto e ha detto: “Va bene, accetto queste condizioni perché voglio lavorare con te”. Non dico che è sempre possibile: In effetti ci sono dei casi in cui ciò non è possibile. Ma non bisogna aver paura di tentare. Forse se chiedi, per esempio, di avere degli orari che ti permettono di andare due volte alla settimana al dojo, e dici “Ecco, voglio questo per continuare” ..

No? Ha già detto di no?

 

- Ah, non sarà possibile. No no, non è possibile.

 

- Beh, a te di decidere, allora. Forse, se tu decidi che vuoi andare comunque a fare zazen, forse alla fine rifletterà.

 

- Ci sarà del lavoro che non sarà fatto per il giorno dopo e questo sarà senz’altro un problema.

 

- Allora è mal organizzato.

 

- Sì sì, certo. Sto facendo il lavoro di tre persone.

 

- Ah ecco. Non è accettabile questo. Hai spesso accettato cose non accettabili per te.

 

- Io ho voluto andare fino in fondo a questa esperienza. Non ho voluto lasciarla senza essere prima andata fino in fondo.

 

- Ma a volte bisogna avere la saggezza di non andare fino in fondo. E’ facile comprendere che è una via sbagliata. Per esempio, se bevi un bicchiere, due, tre bicchieri di vino, alla fine del terzo bicchiere vedi che cominci ad essere un po’ storta e capisci che non vale la pena di finire la bottiglia. Capisci no? [risate]

La saggezza permette di evitare di fare a volte delle cattive esperienze senza voler andare in fondo.

Ma certamente, bisogna sperimentare sufficientemente per vedere che è sbagliato. Ma in generale, se si è abbastanza lucidi, si comprende abbastanza rapidamente.

 

- Non sono abbastanza lucida.

 

- Un po’ masochista!

 

- No!

 

- Spero che tu possa cambiare.

 

- Nei prossimi due anni.

 

- A presto, allora.

 

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- La mia domanda riguarda: come correlare la interrelazione tra chi vive l’esperienza dello spirito del risveglio e chi invece vive il mentale ordinario.

 

- Per esempio? Tu vivi lo spirito del risveglio?

 

- E’ difficile forse rispondere a questa domanda. Tu hai detto che il solo partecipare alla sesshin, nei kusen hai citato questo, il solo fatto di essere qui, siamo sopra la montagna e vediamo, osserviamo chi vive in valle.

 

- No, no, non osserviamo chi vive in valle. Il paragone è vedere la propria vita dal punto di vista della montagna, la nostra vita. Non guardiamo gli altri, ma noi stessi. E allora? Tu vivi con qualcuno che non ha questo spirito del risveglio? E’ questo il problema? Voglio capire la tua domanda.

 

- Sì, vivo con qualcuno. Ma posso anche collegarmi alla domanda precedente, rispetto all’ambito lavorativo, dove quotidianamente siamo messi alla prova rispetto ad un atteggiamento caratterizzato dal mentale ordinario. Sì, potremmo dire che la famiglia e il lavoro sono gli ambiti che più ci richiamano a questo, che ci fanno sperimentare di più questo.

 

- Lo spirito del risveglio è lo spirito del non ricercare il risveglio solamente per noi stessi, ma cercare il risveglio per poter aiutare tutti gli esseri. Allora, gli altri, la famiglia, il lavoro non sono necessariamente un ostacolo, non lo sono automaticamente. Possono persino essere un’occasione per praticare lo spirito del risveglio, cioè dare il gusto di questa Via del risveglio agli altri, alla propria famiglia, al proprio lavoro, agli amici, alle persone che conosci. L’autentico spirito del risveglio non è solo ricercare il risveglio per sé. Vuol dire non fare più separazioni tra sé e gli altri, ma ricercare il risveglio per tutti. Allora, evidentemente questo non funziona sempre perché ci sono persone che non sono pronte ad aprirsi a questo spirito. Ce ne sono persino che lo rifiutano chiaramente. A questo punto è una questione di saggezza e vedere che cosa puoi fare tu, qual è il momento giusto. E io credo che se alla fine ci si rende conto che non si può fare nulla, bisogna forse cambiare la situazione.

 

- Quale situazione?

 

- Per esempio, la situazione del lavoro. Se non solo non si può aiutare gli altri nel lavoro che si fa, ma in più quel lavoro ci impedisce di praticare - è il caso di Serena - in questo caso è meglio andarsene, se si può trovare un’altra situazione, evidentemente. Bisogna anche vivere, ovviamente. Questo è un esempio puramente pratico, ma, più profondamente, credo che in fondo tutti gli esseri hanno lo spirito del risveglio. In ogni caso bisogna avere questa fiducia, perché tutti gli esseri vogliono essere felici, realizzandosi. E non si può essere autenticamente felici, soddisfatti nella propria vita se non ci si realizza. Che non vuol dire realizzarsi a livello delle proprie ambizioni personali, del proprio ego, del proprio successo. Ma vuol dire veramente realizzare la propria autentica natura e risvegliarsi. E’ questo che voglio dire.

Quindi, se tu credi che, in fondo, profondamente, tutti gli esseri hanno questo spirito del risveglio, allora poi tutta la questione diventa: come trovare il mezzo giusto e il momento opportuno per risvegliare questo spirito. E’ questa quindi la risposta alla tua domanda: sviluppare quello che chiamiamo upaya per se stessi, cioè il mezzo abile, la saggezza abile che trova il mezzo per aiutare gli altri ad entrare nello spirito del risveglio. Tu non puoi risvegliare nessuno, ma dare il gusto, il desiderio di ricercare la Via. Semplicemente perché, anche se le persone sono molto lontane dalla Via, a causa di ciò sono insoddisfatte e quindi cercano di nascondere questa insoddisfazione perseguendo ogni sorta di ambizione, di desiderio. E a volte funziona. Per un certo tempo, più o meno lungo, funziona. Apparentemente tutto va bene. Ma ci sarà per forza un momento in cui questo non funzionerà più. Quindi, un momento di dubbio, di rimessa in discussione. Ed è a questo punto che un bodhisattvâ può trovare l’opportunità per far apparire lo spirito del risveglio negli altri. Bisogna essere molto attenti a questo e avere fiducia. Non siamo noi che dobbiamo dare lo spirito del risveglio a qualcuno. Le persone hanno già questo spirito del risveglio ma è ricoperto da molte illusioni. D’accordo?

 

- Sì. Ma ...

 

- Ma?

 

- Non è facile da realizzare ...

 

- No, no, certamente. Ma è la nostra Via di bodhisattvâ.

 

- Quindi bisogna tentare, accettare tentativi ed errori.

 

- Sì, certamente. E’ così che si impara. Bisogna cercare di agire con saggezza, ma non si è sempre sicuri di essere totalmente saggi e a volte bisogna quindi correre dei rischi.

 

- La saggezza si crea quindi sperimentando?

 

- Sì, assolutamente. Il buddhismo è fondamentalmente questo: apprendere attraverso l’esperienza. Ma è un’esperienza che deve essere comunque guidata, rischiarata dall’insegnamento della saggezza. Perché altrimenti si perderà molto tempo, si faranno più errori di quanto è necessario. E’ per questo che si segue l’insegnamento e che pratichiamo. Ma l’insegnamento da solo non è sufficiente. Bisogna sperimentare. A volte nello sperimentare possiamo sbagliarci e quindi impariamo. Impariamo dagli errori.

 

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- Premetto, ed è anche una scusa. Forse lavoro troppo con l’emisfero sinistro. Però ieri tu hai detto che non si raggiunge la vera felicità fino a quando non si realizza il profondo senso, significato della vita. Durante l’ultima sesshin di Roma avevamo parlato del senso della vita e avevi detto che la vita non ha senso. Però questa cosa non mi ha fatto dormire. Non so se puoi darmi qualche aiuto.

 

- Sì. Quando ho detto che la vita non ha senso, ho aggiunto che sta a voi scoprire, creare un senso della vita. In sé la vita non ha senso. Ma c’è un dharma, un ordine cosmico, il modo in cui le cose funzionano. E’ questo che bisogna capire. Il senso che noi diamo alla nostra vita è di armonizzarci con questo ordine cosmico, con questo dharma. Per le montagne, per gli alberi non c’è senso della vita, ma essi seguono naturalmente l’ordine cosmico. Quando arriva la primavera, la neve si scioglie, le foglie degli alberi escono. Non hanno bisogno di farsi delle domande. Ma noi, noi ci facciamo delle domande sul senso della vita. Certe persone, molti esseri umani, fanno riferimento ad una rivelazione religiosa: è Dio che ha rivelato il senso della vita, nella Bibbia e allora bisogna seguire i suoi comandamenti, le sue istruzioni, la sua volontà e questo è il senso. C’è una volontà esterna che dice: è questo il senso, devi seguirlo. In tutti i monoteismi è così. C’è qualcuno, da qualche parte e c’è qualcuno che sa e che indica il senso. E quindi basta ascoltare la Parola.

Nell’insegnamento del buddhismo è un po’ diverso, tocca cioè a ciascuno scoprire da sé il senso della propria vita. Ma non significa scoprire il senso della vita in qualunque modo. Per esempio, si può dire: “Sì, per me il senso della vita è di scalare le montagne, dipingere o avere questa o quella passione”. Per molte persone il senso della vita è soddisfare i propri desideri. Per altre è dedicarsi alla famiglia, crescere dei figli. Perché no? E’ in questo senso che dico che non c’è ‘un’ senso della vita. Ognuno crea un senso. Ma, quello che credo, che la tradizione dello Zen, del buddhismo insegna, è che al di là della soddisfazione dei nostri desideri personali, c’è una realtà alla quale, se non ci risvegliamo a questa realtà, si sarà sempre in difficoltà, in conflitto. Sono questioni fondamentali: la realtà dell’impermanenza, per esempio. Se non accettiamo l’impermanenza, soffriremo necessariamente. Tutto sembrerà assurdo. Anche se realizziamo che il senso della vita sia di creare qualcosa, quello che abbiamo creato, un giorno o l’altro scomparirà, necessariamente. Anche se abbiamo allevato dei figli, un giorno moriranno. Anche noi. Se il senso della nostra vita è di dedicarsi a qualcosa che si spera duri per sempre, se non accettiamo che questo sia totalmente impermanente, evidentemente soffriremo. Soffriremo perché non siamo risvegliati alla realtà, viviamo in un sogno, nel nostro sogno. Ed è per questo che molte persone hanno un senso della loro vita, ma è di vivere il loro sogno. Ognuno ha ovviamente un sogno diverso.

Quindi, dal punto di vista dello Zen, la cosa fondamentale è di risvegliarsi alla realtà così com’è. Quindi accettare l’impermanenza. Ma vedere anche che l’impermanenza esiste a causa dell’interdipendenza. Quindi l’interdipendenza vuol dire che non c’è ego separato, non c’è ‘me’ separato. C’è certamente un ‘me’ relativo, in relazione con gli altri. Questo è il dharma, è la realtà. Impermanenza, non-ego, interdipendenza, i tre aspetti fondamentali dell’ordine cosmico. Bisogna vedere tutto ciò. Che tu sia buddhista o no, che tu pratichi o non pratichi lo Zen, in ogni caso è così. Poi, se tu pratica la Via del Buddha, vuol dire che tu decidi che il senso della tua vita è di armonizzarti con questo, cioè vivere in modo risvegliato, in armonia con l’ordine cosmico. Questo è portatore di senso, è valore. Ma non è un senso che esiste di per se stesso: ciò che esiste è l’interdipendenza, l’impermanenza, il non-ego. E’ così. E’ una realtà. Tu puoi decidere che il senso della tua vita è di armonizzarti con questa realtà e di vedere che cosa ciò produce come effetto, quali sono i valori che appaiono a partire da ciò. E secondo me ci sono dei valori profondi e molto positivi di vita che appaiono a partire da questa accettazione di questa realtà. La compassione, la solidarietà con tutti gli esseri, la benevolenza universale: tutte queste virtù buddhiste sono il risultato del fatto di accettare profondamente la realtà, di armonizzarsi con essa. Anche i precetti: proteggere la vita, non essere egoista, non essere avaro, non mentire. Tutti questi sono precetti che tengono conto di valori positivi che appaiono quando seguiamo l’ordine cosmico. Se seguiamo l’ordine cosmico non possiamo più mentire, non possiamo più fare del male, far soffrire. Non possiamo più essere possessivi, avari, non possiamo più sfruttare gli altri. Tutti questi valori appaiono a partire dalla decisione che prendiamo di armonizzarci con la realtà e non con i nostri desideri illusori. E’ la ragione per la quale dico che la vita non ha senso. La vita segue un certo ordine. Non è il caos, c’è un certo ordine. Se decidiamo, noi, di armonizzarci con quest’ordine, allora diventa il senso della nostra vita. Siamo noi che diamo un senso alla nostra vita.

D’accordo? Capisci?

 

- Proverò.

 

 

Domenica 29 aprile 2007, kusen delle 7:00

 

Durante zazen continuate a concentrarvi sulla vostra postura. Basculate bene il bacino in avanti. Prendete fortemente appoggio con le ginocchia sul suolo. Allungate la colonna vertebrale e la nuca. Spingete il cielo con la sommità del capo e la terra con le ginocchia. Inspirate ed espirate con calma attraverso il naso e lasciate passare i pensieri. Con queste poche istruzioni, si può realizzare la Via. Non è necessario cercarla lontano.

In questa sesshin ho commentato l’affermazione che lo spirito stesso è Buddha, lo spirito stesso è risveglio. Ciò vuol dire risvegliarsi dalle proprie illusioni e allo stesso tempo risvegliarsi alla realtà. Le due cose sono completamente interdipendenti. E’ perché ci risvegliamo alla realtà così com’è, che le nostre illusioni ci appaiono come delle illusioni.

E allora, che cos’è la realtà così com’è? A che cosa tutti i buddha si sono risvegliati? Questa domanda è stata posta costantemente, da 25 secoli, fin dal buddha Shakyamuni. In altre parole, qual è il senso della nostra pratica. Se noi dedichiamo la nostra vita a questa pratica, qual è dunque il senso della nostra vita?

Un giorno il giovane Joshu domandò al suo Maestro Nansen: “Che cos’è la Via?”, il Tao, Do in giapponese. “La Via è un cammino. E’ anche il fatto di camminare su questo cammino”.

Un un cammino verso la verità, ma anche un modo di camminare in armonia con questa verità. Camminare in armonia con la verità è l’autentico risveglio. Funzionare con lo spirito del buddha. E secondo l’esperienza dello Zen, ciò non può essere realizzato attraverso il pensiero, e in ogni caso, non attraverso il pensiero ordinario. Tuttavia, Nansen rispose: “Lo spirito ordinario è la Via”. Allora, stupito, Joshu domandò: “Allora dobbiamo dirigerci verso di essa o no?”. E Nansen gli rispose: “Se cerchi di dirigerti verso di essa, tu te ne allontani”. E allora domandò Joshu: “Se non provo allora, come posso sapere che è la Via?”. Nansen gli rispose: “La Via non appartiene né al sapere, né al non sapere. Sapere è un’illusione e non sapere è la confusione. E se tu ottieni veramente la Via del non-dubbio, è come un gran vuoto vasto e illimitato. Come potrebbe allora esserci del vero o del falso nella Via?”.

E’ ascoltando queste parole che Joshu si risvegliò.

Lo spirito ordinario è la Via. Heijo-shin. Heijo-shin non è lo spirito ordinario così come lo comprendiamo. Il nostro spirito ordinario è lo spirito che discrimina senza sosta, che crea delle separazioni, delle opposizioni tra Via, non-Via, se stessi, gli altri, essere umano, essere Buddha, vita, morte.

Ma heijo-shin è lo spirito che si manifesta sempre. In questo senso è quotidiano. Hei vuol dire semplice, liscio, come la superficie dell’acqua quando le onde hanno smesso di agitarsi. Vuol dire senza ostacoli, senza complicazioni. Jo vuol dire sempre, eterno. Quindi heijo-shin è lo spirito eterno che si manifesta ad ogni istante. E’ lo spirito che è in contatto con la realtà ultima, che si manifesta sempre e ovunque. Realizzare questo spirito è il senso della sesshin, la sesshin che non si ferma mai. Poiché sesshin, questo spirito che si armonizza con la realtà, non ha né inizio né fine. Ma se vogliamo pensare a ciò coscientemente, se ci facciamo un concetto della realtà così com’è o dello spirito quotidiano, ne facciamo qualcosa di limitato. Ne facciamo ‘qualcosa’ e quindi ce ne separiamo. Può diventare eventualmente un oggetto di attaccamento come tutte le cose affrontate attraverso il nostro piccolo ego. Persino la Via, lo Zen può diventare un oggetto di attaccamento. Cioè diventare, trasformarsi nel contrario di quello che è in realtà. Questa realtà, questa Via è completamente al di là di ogni sapere, ma non vuol dire che è misteriosa, lontana, nascosta. E’ l’essenza stessa della nostra vita e quindi si manifesta ad ogni istante, quando lasciamo cadere il nostro spirito che ce ne separa. E’ la funzione di zazen quella di provocare questa riconciliazione con se stessi, con la Via, al di là della nostra coscienza personale, al di là dello spirito che cerca di sapere. Questo spirito realizza la saggezza quando prende coscienza dei suoi limiti e quando si abbandona esso stesso, si abbandona alla Via, si abbandona a zazen.

 

 

Domenica 29 aprile 2007, kusen delle 11:00

 

La sesshin presto terminerà e ognuno ritornerà alla propria vita ordinaria. Questa vita ordinaria può essere la pratica della Via. Il nostro spirito ordinario, di tutti i giorni può essere la Via. Una sola cosa è necessaria per fare ciò: non creare più dualità, opposizioni. Vuol dire avere una profonda fiducia nel fatto che noi siamo già la Via stessa, che la Via non esiste lontano, ma proprio qui e ora, qui dove siamo, non solo sotto i nostri piedi, ma in noi stessi.

La maggior parte del tempo noi siamo come qualcuno che è in mezzo nell’acqua e che cerca l’acqua. Per esempio, spesso si sente dire che si vuole diventare veramente se stessi. Ma evidentemente siamo già noi stessi, nel profondo. Il problema è che la superficie spesso è molto agitata e il fondo non è più visibile. In più, se ci allontaniamo da questa immagine, se cominciamo a mettere in opposizione la superficie e il fondo, è come mettere in opposizione lo spirito ordinario e la Via. Siamo di nuovo nel processo di separazione. Quindi, l’autentica realizzazione della Via è al di là di ogni sapere. E’ nell’esperienza immediata che si produce quando lasciamo cadere lo spirito che discrimina. Non è il caso di respingerlo lontano, tanto più che ne avremo bisogno per risolvere i problemi della vita quotidiana. Non dobbiamo esserne dipendenti. Allora bisogna poterlo lasciar cadere immediatamente e ricollegarsi allo spirito che è la Via, lo spirito che non separa. Per questo il modo migliore è di ritornare al corpo. Essere veramente nel proprio corpo, con il proprio corpo, con questo corpo che non è separato da tutto l’universo, con questa respirazione che crea il legame tra il dentro e il fuori. Anche se pratichiamo così e delle discriminazioni appaiono, non è grave. Il punto importante è di non attaccarci ad esse. Vederle per quello che sono: semplici nuvole.

A proposito di questo koan, lo spirito quotidiano che è la Via, il Maestro Mumon aveva scritto questo poema, che ho già citato questa mattina: “Le centinaia di fiori in primavera; la luna in autunno; la brezza fresca in estate; la neve in inverno. Se non ci sono vane nuvole nel vostro spirito, allora per voi è una buona stagione. Qualunque sia la stagione, è una buona stagione”. Mumon evoca la bellezza di ogni stagione. Certamente è importante vederla. Anche i fiori a primavera appassiscono e cadono ed eventualmente noi lo rimpiangiamo. La luna è bella in autunno, ma rapidamente arrivano le nuvole e si mette a piovere. La brezza fresca in estate è piacevole ma rapidamente il caldo diventa soffocante. La neve è bella in inverno, ma spesso il freddo è insopportabile.

E’ così per le stagioni come per la nostra vita quotidiana. La bellezza e la bruttezza, il piacere e il dolore, la gioia e la tristezza si mescolano costantemente. Se lo rimpiangiamo, ciò diventa le nuvole vane. E se l’accettiamo come qualcosa di naturale, come l’impermanenza, come la manifestazione del Tao, dell’ordine cosmico, e troviamo che è normale - i fiori appassiscono, la neve si scioglie, la pioggia arriva dopo il bel tempo - allora questa impermanenza non turba più il nostro spirito. E anche se il nostro spirito è turbato, questo turbamento stesso fa parte dell’ordine cosmico, fa parte di ciò che dobbiamo accettare. Ciò vuol dire che lo spirito della Via è lo spirito che ingloba tutte le cose costantemente. Non è mai prigioniero dei nostri pensieri o delle nostre emozioni ma ingloba tutti i nostri pensieri e tutte le nostre emozioni e ci permette di non stagnarci sopra, di andare costantemente al di là, con una grande libertà dello spirito che è fatta di accettazione e di fiducia profonda nella vita, nell’ordine cosmico.

Allora non c’è più differenza tra essere in sesshin o essere nella vita quotidiana. Ovunque è il luogo dove possiamo praticare la Via. In ogni istante la Via si realizza di per se stessa.

 

 

 

Traduzione:   Franca Mondino

Annotazione:             Chiara Pandolfi, Milena Garavaglia, Francesco Mandracci, Stefano Fiorini, Aura Cesari